C'è un fondo oscuro nell'America bianca e di mezz'età, consumata da una malattia mortale senza diagnosi
New York. Gli economisti Angus Deaton e Anne Case credevano forse di inquadrare la condizione dell’americano bianco di mezz’età limitandosi alla scarsa profondità d’indagine concessa dalle scienze sociali, e si sono ritrovati fra le mani un saggio esistenzialista, un paper che si proponeva di studiare la mortalità è diventato una lamentazione generazionale sulle angherie del vivere. Marito e moglie con cattedra a Princeton, lui fresco di premio Nobel, hanno scavato nello sterminato database del Centers for Disease Control per dare ragione di una tendenza spuria, controcorrente rispetto alle società occidentali e anche rispetto agli altri gruppi etnici che vivono negli Stati Uniti, una patologia che prende l’uomo bianco americano di mezza età e lo conduce alla morte più rapidamente e più frequentemente di tutti gli altri.
In particolare sono gli individui fra i 45 e i 54 anni con livelli d’istruzione più bassi ad avere un impatto su questo gruppo che da anni esibisce un comportamento inusuale, difficile da decifrare per medici e demografi. Ciò che uccide gli americani bianchi di mezza età con frequenza oltre la media, dicono Deaton e Case, non è il diabete, non sono le malattie cardiovascolari, non sono le grandi patologie che affliggono parti della popolazione per ragioni genetiche, alimentari o economiche, a fare la differenza sono i suicidi e le malattie che derivano dall’abuso di sostanze, che si tratti di alcol, oppiacei, eroina o una combinazione di questi elementi.
E’ la malattia mortale di Kierkegaard, non una fattispecie diagnosticabile, che sta consumando il pezzo d’America che per vocazione e tradizione dovrebbe essere il pilastro della società. Dal 1999 al 2014 la mortalità fra i bianchi di mezz’età che hanno al massimo un diploma di scuola superiore è cresciuta di 134 individui ogni centomila, un fatto statisticamente enorme che gli autori paragonano per rilevanza “soltanto all’impatto dell’Aids nella società contemporanea”. Nei grafici che confrontano la mortalità dello stesso gruppo etnico e sociale in vari paesi con simili livelli di sviluppo, gli Stati Uniti sono un’eccezione assoluta, la freccia tende verso l’alto mentre tutte le altre guardano in giù. Gli afroamericani e gli ispanici hanno un tasso di mortalità più elevato dei bianchi, ma mentre i due primi gruppi stanno rapidamente migliorando la loro condizione generale di salute, dunque l’aspettativa di vita media, i bianchi americani peggiorano drammaticamente. Deaton e Case sono arrivati per caso o per serendipity a questo studio: una si stava interrogando sullo strano rapporto fra felicità e suicidi (la felicità non è inversamente proporzionale al tasso di suicidi, ha scoperto), l’altro era interessato all’impatto del dolore cronico sull’aspettativa di vita, lui che soffre da dodici anni di un incurabile mal di schiena; scavando hanno scoperto l’impatto enorme dei suicidi in questo gruppo demografico, ma soprattutto si sono scontrati con l’epidemica delle dipendenza da droghe e con tutte le patologie connesse. Alcol, droga e suicidi hanno fatto aumentare del 22 per cento il tasso di morti fra gli uomini di mezza età con basso livello di istruzione, mentre fra chi ha almeno una laurea le statistiche sono in calo, in linea con gli altri paesi dell’Europa occidentale.
[**Video_box_2**]Per l’economista di Harvard David Cutler, le cause individuate da Deaton e Case non erano che fattori minori nella vastità delle indagini sulla mortalità, niente di paragonabile ad esempio all’effetto che ha l’alimentazione, mentre questo studio dice che “queste spie sono invece missili pronti a esplodere”. L’americano bianco muore di malattie al fegato, di intossicazioni croniche che divorano organi e tessuti, di infezioni polmonari che sono il risultato di una incuria che non necessariamente deriva dalle condizioni economiche. Molti di quelli che non si suicidano si mettono nel naso o nelle vene sostanze che con la morte sono apparentate, e sono gli stessi che abusano di medicinali in un modo sconosciuto fra i loro coetanei neri o ispanici. Sono sintomi di una malattia che viene prima della patologia, del morbo riconoscibile con gli strumenti medici.
Benché i dati fossero disponibili e ampiamente studiati da orde di sociologi ed economisti, nessuno prima degli economisti di Princeton ha notato che l’incremento della mortalità è un fatto specifico, peculiare degli americani bianchi fra i 45 e i 54 anni, una generazione scettica verso il proprio futuro finanziario, ma le preoccupazioni economiche non sono che un pezzo della storia. Il sociologo Samuel Preston, interrogato dal New York Times sulla ricerca dei colleghi ha detto: “Questa è una vivida indicazione che qualcosa non va in queste famiglie americane”. Definire questo “qualcosa” è attività fuori dalla portata di economisti e medici, anche di quelli che vincono i premi Nobel. C’è un fondo oscuro nel cuore bianco dell’America wasp, non è un fatto genericamente occidentale, e sarebbe in qualche modo un sollievo se la spiegazione fosse il diabete o il colesterolo.
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