Una coalizione leggera

Tantissimi piloti ma pochi risultati. Cosa manca per battere lo Stato Islamico

Paola Peduzzi
Pochi strike americani. Timidezza inglese. Francia in panne. Intermittenza russa, che ieri ha bombardato duro Raqqa.

Per Londra la Siria può ancora attendere. Downing Street dice che il piano di bombardare lo Stato islamico in Siria non è affatto saltato, il Regno Unito è in prima fila nella lotta al terrorismo, ma i principali giornali inglesi ieri sostenevano che, se anche il piano dovesse ancora essere in piedi, e molti ne dubitano, comunque non è imminente. Il premier conservatore, David Cameron, ha più volte detto in passato che considera piuttosto bizzarro il fatto che gli aerei dell’esercito britannico facciano operazioni fino al confine iracheno e poi debbano fermarsi perché non c’è il mandato per volare nei cieli siriani (e comunque quel confine è piuttosto labile), ma ha anche aggiunto che l’ampliamento della missione deve passare per un voto parlamentare. E qui sta il primo problema: il Labour di Jeremy Corbyn che sulle questioni militari prende consigli da Stop the War non vorrà certo votare a favore dei bombardamenti in Siria. Ma anche dentro al partito di governo ci sono molti dubbi (tra questione europea e guerra al terrorismo le spaccature sono sempre più evidenti), e l’opinione pubblica si sa che è fortemente contraria, soprattutto ora che stanno anche emergendo i dettagli, per ora per nulla rassicuranti, del ruolo dell’ex premier Tony Blair nella campagna contro Saddam Hussein in Iraq. La commissione Affari esteri dei Comuni ha dato il colpo di grazia al progetto di Cameron (è questo che ha fatto probabilmente intendere ai media che il voto non ci sarà) dichiarando che con una missione in Siria si rischia “l’ambiguità legale, il caos politico sul terreno, l’irrilevanza militare e i costi diplomatici”. La perseveranza del premier potrebbe rivelarsi molto dannosa, e si sa che oggi la popolarità ha più peso della battaglia valoriale. Ma c’è anche un altro fattore, come sottolineava ieri il Times: la strategia di Cameron è stata sfiancata dal Labour, sì, ma anche dalla presenza dei russi e dei loro airstrike. Volare nel cielo siriano è diventato complicato, e non è un caso che anche i raid americani siano nelle ultime settimane drammaticamente diminuiti.

 

La guerra dei russi low cost e a tempo indeterminato. L’Economist ha cercato di capire la strategia russa in Siria guardando i costi della missione. Lo studio più rigoroso fatto da Ihs Janes, stima che la campagna russa costa dai 2,3 ai 4 milioni di dollari al giorno, e facendo una media di tutte le stime disponibili, la spesa vale il 2-4 per cento del budget militare ufficiale della Russia: si può definirla una missione low cost. Secondo l’ex ministro delle Finanze, Aleksei Kudrin, Mosca spende molto meno di quanto ha speso in Ucraina, e spende certamente meno degli americani che, secondo i dati del Pentagono, spendono circa 10 milioni di dollari al giorno: la principale bomba utilizzata è il Kab-500, in servizio da quarant’anni, di cui la Russia ha “stock illimitato”, cioè il costo-opportunità di utilizzarla è pari a zero (lo stesso vale per i missili). Il problema dal punto di vista militare è che questa guerra low cost con le bombe non guidate è anche una guerra “low return”: ha un impatto ridotto sulle operazioni militari perché le bombe cadono secondo la forza di gravità e con meno precisione. Il costo del personale, secondo le stime, è pari a circa 1.800-2.300 dollari al mese (più un bonus giornaliero che va dai 43 ai 62 dollari, che preso tutti i giorni può raddoppiare lo stipendio), quando quello dei piloti americani è di 12.500 dollari al mese. Se la missione resta in questi termini, il costo per Mosca resta basso – se dovesse aumentare l’utilizzo dei missili, le cose cambierebbero: il lancio dei missili dal mar Nero il 7 ottobre scorso è costato 36 milioni di dollari. Lo stesso varrebbe se i soldati, che ora sono 1.600, dovessero aumentare. L’Economist conclude che, stando ai dati, è improbabile che ci siano dei cambiamenti, perché conta di più l’orizzonte temporale: una guerra low cost a tempo indeterminato.

 

Raid russi su Raqqa. Ieri il New York Times e il Financial Times hanno entrambi pubblicato due articoli lunghi sul tentativo americano di mettere in piedi una coalizione mista di curdi e arabi per dare l’assalto – via terra – a  Raqqa, capitale siriana dello Stato islamico. E proprio ieri la Russia ha effettuato un bombardamento aereo pesante su Raqqa, 24 raid che hanno colpito un ponte, un ospedale e altri punti non definiti “bersagli colpiti grazie alle indicazioni degli oppositori siriani” ha specificato il ministero della Difesa russo (nessuno dell’opposizione ha confermato). E’ la prima volta che gli aerei russi bombardano in questo modo lo Stato islamico da quando hanno cominciato a volare – il 30 settembre – perché nel 90 per cento dei casi volano in un altro quadrante della Siria, sopra le teste di altri gruppi. In molti casi si limitavano a mettere i video dei bombardamenti su internet e a dire che erano stati effettuati contro lo Stato islamico, ma gli esperti di topografia del sito Bellingcat hanno dimostrato che fino a ieri su novanta video di raid aerei russi soltanto uno mostrava davvero un raid contro lo Stato islamico. Subito dopo la scoperta di Bellingcat, c’è stato un brusco declino del numero dei video pubblicati dal ministero russo. Un mese di conflitto è poco per leggere le intenzioni di chi entra in una guerra che è ormai al quinto anno, quindi è prematuro giudicare l’impresa militare di Mosca. Ma al livello corrente di forze,  i russi non possono dedicarsi alla guerra contro lo Stato islamico senza trascurare l’altra guerra, quella che hanno combattuto finora a ovest per aiutare i soldati siriani contro l’opposizione armata. Ieri il generale russo Andrei Kartapolov, che guida le oeprazioni aeree russe, ha annunciato: “C’è stata una esercitazione congiunta tra americani e russi in Siria”. Gli americani hanno risposto: “C’è stata una prova di contatto radio tra due aerei”.

 

[**Video_box_2**]Bombardare poco non basta. C’è un crollo verticale nel numero dei bombardamenti americani contro lo Stato islamico in Siria, dove i jet di Washington volano in coabitazione con gli aerei russi. Lo stesso declino non c’è in Iraq, dove quei jet volano senza antagonisti internazionali. Nell’ultima settimana di ottobre gli aerei americani hanno effettuato soltanto due raid in Siria, rispetto ai cinquanta a settimana nei mesi prima di ottobre. In generale, dire che le operazioni americane procedono a ritmo blando è un eufemismo. Per fare un paragone, quando nel 2003 gli americani attaccarono l’Iraq con la cosiddetta campagna “shock and awe”, disegnata per traumatizzare e costringere alla resa l’esercito iracheno senza che ci fosse bisogno di combattere al suolo, ci furono 30 mila airstrike soltanto tra il 18 marzo e il 18 aprile. E c’erano già stati altri 800 strike aerei un anno prima, nel 2002, per distruggere i sistemi di difesa aerea del presidente iracheno Saddam Hussein. Anni dopo, ci furono di nuovo 400  strike aerei in un mese soltanto, gennaio 2008, per appoggiare i soldati americani impegnati nella guerra contro lo Stato islamico in Iraq. Un altro termine di paragone: durante la campagna di bombardamenti durata sette mesi in Libia nel 2011, gli aerei Nato effettuarono 7.700 bombardamenti, in media 36 al giorno. Si sono scritti volumi di teoria militare sulla impossibilità di vincere una guerra soltanto con le operazioni dall’alto, soprattutto quando si ha a che fare con un nemico così determinato e veloce ad adattarsi come i gruppi jihadisti. In Afghanistan ci sono stati più di sessantamila strike dal 2001 a oggi e i talebani sono ancora lì e anzi quest’anno stanno avanzando.

 

E intanto lo Stato islamico si espande. Tra i bombardamenti russi e le forze speciali americane mandate dall’Amministrazione Obama, l’area di Raqqa sta diventando il teatro per una competizione tra spin doctor militari, al grido di “chi fa di più contro lo Stato islamico? Noi!”. E intanto lo Stato islamico avanza: ha guadagnato territorio in Iraq e in Siria a dispetto dei jet americani e russi. C’è anche una terza campagna aerea in corso contro lo Stato islamico, quella lanciata ad agosto dalla Turchia. Come nel caso dei russi, anzi ancora di più, la stragrande maggioranza degli strike turchi colpisce non il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi ma altri nemici considerati prioritari, nel caso di Ankara: i curdi.

 

I guai tecnici dei francesi. In Siria ci sono anche operazioni aeree francesi, lanciate il 27 settembre – era previsto che cominciassero prima, all’inizio del mese. Il governo Hollande dice che colpire lo Stato islamico è importante perché riduce le chance di altri attacchi in Francia, ma non ha tutta la tecnologia militare che serve a una campagna così impegnativa. Gli aerei equipaggiati per la ricognizione a lungo raggio non sono abbastanza e si devono dividere tra l’operazione Chammal, nel vicino Iraq, e l’operazione Barkhane, nel Sahel, dove sono necessari per sorvegliare i movimenti di Boko Haram e di al Qaida nella zona selvaggia tra Nigeria, Chad, Niger e Camerun. Secondo un sito specializzato francese – Intelligence Online – gli aerei sono già al limite massimo di utilizzo. Inoltre c’è nervosismo perché i francesi maltollerano la dipendenza dall’approvazione americana nella scelta dei bersagli, e la vulnerabilità nei confronti di Assad – che potrebbe colpire se volesse gli aerei francesi non dotati di contromisure sufficienti. Se non lo fa, è per un tacito accordo.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi