Avere l'Iraq addosso
Il tempo dei ripensamenti sull’invasione dell’Iraq del 2003 è arrivato anche in casa Bush. Il papà, l’ex presidente George H. W. Bush ora novantunenne e infragilito dal Parkinson, non mette in discussione la guerra in sé
Milano. Il tempo dei ripensamenti sull’invasione dell’Iraq del 2003 è arrivato anche in casa Bush. Il papà, l’ex presidente George H. W. Bush ora novantunenne e infragilito dal Parkinson, non mette in discussione la guerra in sé: il rovesciamento e la cattura di Saddam rappresentano “momenti d’orgoglio” della storia americana, ha detto Bush senior al suo biografo, l’ex direttore di Newsweek Jon Meacham, e ha smentito quel che si disse sulla frattura tra i due Bush, “Saddam non c’è più – dice – e con lui se se ne sono andate brutalità e cattiveria e ferocia”. Stavo e sto con mio figlio, “l’equazione è semplice”, dice Bush che però non risparmia nulla ai due architetti della missione irachena, Dick Cheney e Donald Rumsfeld, “iron ass” prepotenti – bisognava contenerli, e non farlo è stato un errore. Come un altro errore è stato il discorso sullo stato dell’Unione in cui George W. Bush lanciò la lotta all’“asse del male”: “Penso che sia provato storicamente che non ne è derivato alcun beneficio”. Bellicoso e incapace di gestire i suoi consiglieri, ecco come appare Bush jr nelle parole del padre.
La biografia – “Destiny and Power: The American Odyssey of George Herbert Walker Bush” – esce martedì prossimo, ma dalle anticipazioni emerge il risentimento nei confronti dei due consiglieri con cui Bush senior aveva già avuto a che fare (a parte i regolamenti di conti tra uomini, qui si aspetta con trepidazione il racconto delle liti tra la ex first lady Barbara Bush e l’ex first lady Nancy Reagan). Cheney non era così quando lavoravo con lui, dice Bush, “ha costruito il suo impero e ha marciato al proprio ritmo”, condizionando le decisioni di Bush figlio, mentre Rumsfeld è un “iron ass” “che ha servito malamente il presidente”.
[**Video_box_2**]La biografia di Bush padre – che Peter Baker sul New York Times definisce “largely admiring” – arriva nel momento in cui l’attenzione è di nuovo sulla famiglia Bush: il figlio Jeb è in difficoltà nella campagna elettorale per il 2016 e già in passato si è trovato in imbarazzo a discutere della guerra del fratello George. Ma il ripensamento sulla campagna irachena è ovunque: il presidente Barack Obama ha costruito la sua politica estera, o quel che definiamo tale, con l’unico obiettivo di “non ripetere gli errori in Iraq”, e da ultimo l’ex premier britannico Tony Blair, “buddy” di George W. nell’invasione irachena, ha rilasciato dichiarazioni meste e un poco revisioniste sull’operato della coalizione dei volenterosi del 2003 (anche per Blair il momento è particolare: usciranno i risultati dell’inchiesta Chilcot che massacreranno ulteriormente il lascito di quella guerra). Se si guarda a quel che accade in Iraq oggi, con i bombardamenti americani contro lo Stato islamico, la riottosità del governo di Baghdad dove si parla di un golpe bianco da parte dell’ex premier Nouri al Maliki in chiave anti americana, sembra di essere tornati indietro di almeno dieci anni. La morte di Ahmed Chalabi qualche giorno fa, considerato dall’opinione pubblica l’uomo che ha convinto Washington a fare il regime change in Iraq perché Saddam aveva le armi di distruzione di massa che invece non c’erano (Chalabi era molto di più e molto di diverso: ha dedicato tutta la sua vita a destituire Saddam e creare un Iraq democratico), ha contribuito a ributtarci addosso tutto quel che è accaduto dopo l’11 settembre, gli errori strategici e quelli tattici. Ora non siamo in una situazione molto differente: sul campo ci sono così tanti attori che si parla di “proto-guerra mondiale”, e il terrorismo dilaga. Solo non ci sono più i pacifisti in piazza, e nemmeno un novello generale Petraeus all’orizzonte.