La sfida di Aung San Suu Kyi alle elezioni in Birmania. Reportage da Yangon
Yangon. "Trentatré contro sessantasette: difficile definirle libere e giuste", ironizza uno dei diecimila osservatori internazionali che devono monitorare le elezioni di domenica in Birmania. Le due cifre indicano le percentuali che, secondo calcoli complessi quanto quelli dei bedyn saya, gli astrologi, dovrebbero raggiungere rispettivamente i due maggiori partiti per assicurarsi la vittoria: l’Union Solidarity and Development Party (Usdp), costituito dai militari nel 2011, a cui basterebbe il 33 per cento dei voti per la vittoria, e la National League for Democracy (Nld) guidata da Aung San Suu Kyi, che invece ha bisogno del 67 per cento dei consensi. "Se sapete già che non sono elezioni libere, cosa state qui a fare?". "A osservare. L’atteggiamento della gente: se parla, scherza, si sente partecipe. Non è tutto bianco o nero", risponde una donna che fa parte degli osservatori. Il suo è un atteggiamento forse romantico, ma ben più profondo di molte analisi occidentali. Queste elezioni sono le prime che si possano definire tali dopo quasi cinquant’anni di regime miliare. "Le più libere e giuste da una generazione", osserva Ei Ei Toe Lwin, del Myanmar Times, giovane editorialista testimone di una libertà di stampa sinora inconcepibile.
In realtà le elezioni si erano già svolte nel 1990, concludendosi con una vittoria schiacciante della coalizione guidata da Aung San Suu Kyi. Ma i risultati furono annullati, la Signora costretta agli arresti domiciliari (solo il Nobel per la pace l’anno seguente la difese dal carcere o da un attentato) e la giunta restò al potere sino al 2010, quando l’attuale governo semi-civile fu eletto in elezioni cui l’Nld non partecipò. Nelle elezioni di medio termine del 2012, invece, l’Nld conquistò 43 dei 44 seggi in gioco e Aung San Suu Kyi fu eletta al parlamento nazionale. Intanto, nel 2008, era stata varata una nuova costituzione che garantiva ai militari il 25 per cento dei seggi, assicurava al comandante in capo del Tatmadaw, le forze armate, il potere di sciogliere le camere, e impediva a Suu Kyi di essere eletta presidente (perché sposata a uno straniero).
Per molti questo è storia. "Nessuno vuole un ritorno al passato. A nessuno conviene", afferma Larry Jagan, ex responsabile della Bbc per il sud-est asiatico, uno dei più profondi conoscitori della Birmania, dove vive diversi mesi l’anno. Lo assicura anche U Htay Oo, segretario temporaneo dell’Usdp: "Che si vinca o si perda rispetteremo il risultato". Il risultato sembrerebbe scontato, almeno secondo le previsioni degli analisti occidentali: la maggior parte dei 30 milioni di elettori voterà per la Nld. Anzi, per Aung San Suu Kyi. "Lei è la star", precisa Jagan. Lei ne è sicura, come ha dichiarato nella conferenza stampa di giovedì: "Tanto vinco io, il mio potere sarà comunque superiore a quello del presidente".
In realtà i risultati e gli scenari sono ancor più complicati del calcolo dei voti. "La road map per la democrazia è un concetto. La mappa non è il territorio. Non ci sono piani precisi", afferma Jagan. Innanzitutto per le tempistiche: i primi risultati si avranno nella tarda serata di domenica. Ma saranno solo quelli delle grandi città, dove appare scontata la vittoria della Nld. Gli altri arriveranno nei giorni seguenti, per essere definitivi dopo una o due settimane. Saranno quelli dei villaggi, dalle coste sul Golfo del Bengala sino ai primi contrafforti himalayani. E non sono altrettanto scontati. Perché il voto è spesso deciso dai capi villaggio e questi temono ancora le ritorsioni dei militari. Ma soprattutto perché nei villaggi è decisivo il voto buddhista e quello etnico. "Il sangha, la comunità dei monaci, si è espressa a favore dell’Usdp, quale protettore della religione, o comunque contro la Nld", spiega al Foglio un diplomatico di Yangon. Con buona pace delle anime belle secondo cui la Signora si è resa “complice” della crescente islamofobia e non ha difeso i Rohingya, l’etnia bengalese di fede musulmana. Solo perché ha dichiarato di “non esagerare il problema mentre tutta la nazione sta vivendo una transizione epocale”. "Molti hanno confuso il suo atteggiamento e la sua lotta. Lei si è esposta per i diritti del suo popolo, non per i diritti umani in generale", commenta il diplomatico. Altra variabile sono i novanta partiti che si presentano in rappresentanza delle oltre cento etnie birmane. "Ci sono quelli pro Nld e quelli contro, quelli non allineati e quelli divisi al loro interno, come accade per gli Shan (una delle più forti minoranze, tradizionalmente dedita alla coltivazione e al traffico d’oppio)", spiega divertito Jagan. "Decideranno da che parte stare dopo le elezioni, secondo gli incarichi proposti".
[**Video_box_2**]I risultati veri, quindi, si sapranno solo a fine gennaio, quando i rappresentanti delle due camere voteranno per l’elezione del presidente e dei due vicepresidenti. Nel frattempo, secondo le percentuali dei voti ottenuti domenica, si decideranno le strategie. "I militari si sentono comunque sicuri. Probabilmente esprimeranno il presidente e sicuramente una delle vicepresidenze. Senza contare che gli spettano di diritto i tre ministeri della Difesa, dell'Interno e dell’Immigrazione", puntualizza il diplomatico. "L’Uspd si è attrezzata per una sconfitta e non è esclusa una scissione del partito da parte di quelli favorevoli a un accordo con San Suu Kyi, emarginati qualche mese fa". La Signora li ha tranquillizzati: anche in caso di vittoria schiacciante vuole formare un governo di coalizione. In cambio sembra si aspetti la nomina a Minister in the president office, sorta di “eminenza grigia” o consulente del presidente (tanto che, secondo Jagan, il prossimo presidente potrebbe essere Soe Maung, che attualmente ricopre tale carica).
Alla fine, quello che converrebbe di più, chiunque sia il vincitore, è una vittoria di misura: lascerebbe maggior margine d’accordo. Forse lo sperano anche i militari. "I giovani turchi di Tatmadaw sono più aperti e moderni dei quadri dell’Uspd (rappresentanti della vecchia generazione di generali)", afferma Jagan. "Mentre il partito punta su un’economia nazionalista, che dia meno spazio agli investimenti esteri, loro vogliono giocare un ruolo proattivo sullo scenario internazionale". In questa situazione tanto fluida i parametri occidentali non servono. "Qui l’ideologia non conta, queste non sono elezioni politiche nel senso che intendiamo noi» conclude Jagan. Per spiegarsi meglio chiede a Winn, il suo autista: "Perché voti contro l’Uspd?". "Perché non mi piacciono".
Dalle piazze ai palazzi