Tra vertici formali e informali
Acceleriamo, dice l'Ue, sulla crisi dei migranti. Ma la strategia zoppica
Bruxelles. L’ultima trovata dei ministri dell’Interno dell’Unione europea per tentare di frenare il flusso di rifugiati è una campagna pubblicitaria nei paesi di origine e di transito. Secondo le conclusioni adottate dal Consiglio affari interni di ieri, ai migranti pronti a partire per l’Europa sarà ricordato che devono “registrarsi nel primo paese di arrivo”, che “non hanno diritto di scegliere lo stato” in cui chiedere asilo, che rischiano di essere “rimpatriati velocemente” in caso di rifiuto e che non è possibile “rifiutare di cooperare con le autorità nazionali”. Il tentativo di ridurre il cosiddetto “pull factor” – il fattore calamita che attira i migranti in Europa – appare disperato, nel momento in cui gli stati membri devono affrontare un’ondata senza precedenti di rifugiati. La Commissione europea, calcolando i costi e i benefici economici dei migranti, ha stimato in 3 milioni il numero di arrivi da qui alla fine del 2017: un milione quest’anno, 1,5 milioni il prossimo, 500 mila il successivo. L’inverno e il mare agitato non hanno rallentato le partenze dalla Turchia verso le isole greche e, secondo l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, 600 mila migranti si imbarcheranno nei prossimi quattro mesi.
Lo slogan dei ministri dell’Interno ieri è stato accelerare: accelerare con il programma di redistribuzione di 160 mila richiedenti asilo da Italia e Grecia verso altri paesi europei; accelerare sugli “hotspot”, i centri di registrazione dei migranti, che i governi di Roma e Atene non hanno ancora reso pienamente operativi; accelerare sui rimpatri dei migranti economici; accelerare con l’assistenza ai paesi sulla rotta dei Balcani. Ma l’unica accelerazione che si registra finora è quella del disfacimento dell’Ue. Non solo con la costruzione di muri e barriere spinate, ma anche con il nuovo impeto dei movimenti populisti anti europei e dei sostenitori della Brexit nel Regno Unito. Le regole di Dublino, che dovevano proteggere i paesi al centro dell’Ue da un’invasione di richiedenti asilo passati attraverso le deboli maglie della periferia, sono state archiviate all’inizio di settembre, quando Angela Merkel ha annunciato che le porte della Germania erano aperte ai rifugiati siriani. Il 13 novembre, il governo di Berlino è chiamato a fare un’altra scelta esistenziale per l’Europa senza frontiere: riaprire il proprio confine con l’Austria, rischiando una rottura con la Baviera, oppure denunciare di fatto gli accordi di Schengen, che limitano i controlli temporanei a due mesi. Il giorno prima, in un vertice informale dell’Ue alla Valletta, Merkel corre il pericolo di diventare il capro espiatorio di un’Ue che non ha visto la crisi arrivare e la cui risposta è superata dagli eventi. La cancelliera sembra in un vicolo cieco: “Merkel è stata sopraffatta dalla sua stessa audacia, ma facendo marcia indietro sui rifugiati perderebbe autorità in Europa”, spiega al Foglio un alto diplomatico europeo.
Al vertice informale della Valletta, che sarà preceduto da un summit informale tra Europa e paesi africani, a Merkel sarà offerta una via d’uscita, dice l’alto diplomatico: “Congelare la situazione, dire ai siriani che per ora non c’è più posto, blindare le coste greche, smaltire le richieste dei rifugiati e sostituire l’attuale programma di redistribuzione interna all’Ue con il reinsediamento direttamente dalla Turchia”. L’alternativa è correre il rischio della chiusura delle frontiere da parte della Germania o dell’Austria, con un effetto a catena sugli altri paesi della rotta balcanica, con “tutti i migranti che si ritroverebbero bloccati in Grecia”, spiega l’alto diplomatico. Il governo di Atene è una delle ragioni per cui la risposta all’emergenza non sta funzionando. La Grecia non ha un apparato statale in grado controllare le frontiere con la Turchia, manca dell’amministrazione necessaria a registrare 10 mila arrivi al giorno ed è priva delle strutture di accoglienza che servirebbero per centinaia di migliaia di persone.
Alexis Tsipras usa la crisi dei rifugiati come moneta di scambio: “Non possiamo accogliere 50 mila migranti e cacciare 50 mila greci dalle loro case”, spiega al Foglio un consigliere del primo ministro greco a proposito dello stallo con i creditori internazionali sugli sfratti per i proprietari che non pagano il mutuo.
Gli “hotspot” dovevano essere la panacea, secondo la Commissione: funzionari Frontex e di altre agenzie inviati in centri sulle isole di approdo in Grecia e Italia, per accertare che i richiedenti asilo fossero registrati, con una selezione preliminare tra potenziali rifugiati e migranti economici. In Grecia, su sei “hotspot”, soltanto quello di Lesbo è operativo, ma tra mille difficoltà. In Italia, su sei centri, soltanto Lampedusa è funzionante. Ma numerosi rifugiati – anche siriani, eritrei e iracheni, che dovrebbero beneficiare del programma di ricollocazione di 160 mila richiedenti asilo lanciato dalla Commissione – “non si registrano perché temono di rimanere bloccati in Grecia o Italia”, dice un’altra fonte. Per porvi rimedio, i ministri dell’Interno ieri hanno invocato “misure coercitive, inclusa come extrema ratio il ricorso alla detenzione” per “far fronte alla potenziale mancanza di cooperazione da parte dei migranti al loro arrivo in Ue”. Ma nel “pieno rispetto dei diritti umani e del principio di non respingimento”. I paesi del nord vorrebbero trasformare gli “hotspot” in centri di detenzione temporanei. Ma Italia e Grecia “non possono essere trasformate in uno stato di polizia per seguire tutti i rifugiati o in una grande prigione per migranti”, risponde un ambasciatore.
Il programma di ricollocazione finora si è dimostrato un fallimento. L’obiettivo finale di 160 mila richiedenti asilo da redistribuire è già superato dai numeri della crisi (600 mila arrivi solo in Grecia dall’inizio dell’anno). Ma la contabilità quotidiana delle partenze dagli aeroporti di Ciampino o Atene sfiora il ridicolo: secondo le ultime cifre pubblicate dalla Commissione, solo 135 rifugiati sono stati riallocati da Italia e Grecia su 3.546 posti offerti dagli altri stati membri. Il numero di migranti è talmente basso che il governo di Atene preferisce comprare biglietti aerei sulle compagnie di linea, invece di affittare un charter o utilizzare aerei militari. Decine di siriani ed eritrei hanno rifiutato di partire verso il Lussemburgo e altri paesi a loro sconosciuti. La meta preferita è la Germania, al massimo la Svezia. Ma, sopraffatto dal numero di rifugiati accolti quest’anno, il governo di Stoccolma ha richiesto di beneficiare del programma di redistribuzione, facendo marcia indietro sulla sua politica di accoglienza. I più di tremila richiedenti asilo che la Svezia aveva promesso di prendere da Italia e Grecia dovranno essere redistribuiti tra gli altri paesi Ue. Secondo una fonte comunitaria, “se Germania e Austria dovessero fare come la Svezia, la ricollocazione salta”.
[**Video_box_2**]Nei Balcani sono riaffiorate antiche ostilità, la Germania è delusa dal menefreghismo della Francia, i paesi del gruppo di Visegrad hanno rotto con la Germania, che era stata il grande sponsor dell’allargamento a est. Il presidente della commissione, Jean-Claude Juncker, e quello del Consiglio europeo, Donald Tusk, si danno battaglia a colpi di summit formali e informali. “Juncker difende Merkel e la solidarietà verso i rifugiati, mentre Tusk insiste per riprendere il controllo delle frontiere”, spiega l’alto diplomatico. Le grandi coalizioni in Germania e Austria sono messe a dura prova. Negli incontri privati, Merkel si lamenta di essere “sola” sui rifugiati. “Le nostre possibilità sono limitate”, ha detto il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, nel fine settimana, mentre i socialdemocratici rigettavano le misure della Cdu per evitare la rottura con il leader della Baviera e della Csu, Horst Seehofer. La crisi dei rifugiati, più che alla Valletta, alla fine potrebbe giocarsi a Berlino.