La politica come arte inquisitoria. Hillary interpreta in senso democratico la lezione di Nixon
New York. Il momento fin qui più brillante della campagna elettorale di Hillary Clinton è stato il lunghissimo interrogatorio della commissione d’inchiesta sui fatti di Bengasi del 2012. La candidata democratica, preparatissima, ha respinto in modo credibile tutte le accuse di una commissione gravata dai sospetti di agire su mandato politico, guidata da un ex procuratore di ferro di nome Trey Gowdy, che con zelo ha cucito le manchevolezze dell’allora segretario di stato nel gestire l’attacco in Libia allo scandalo delle email di lavoro custodite in server privati. Ma, contrariamente al primo interrogatorio su Bengasi, questa volta Hillary era attrezzata meglio dei suoi avversari. Nessun comizio, nessuna piattaforma elettorale, nessun dibattito televisivo, nessuno spot, nessuna newsletter di Lena Dunham e nessuna ospitata da Ellen DeGeneres ha dato a Hillary il tipo di spinta elettorale che ha ottenuto in un aula del Congresso dove è rimasta per 11 ore. Insomma, l’evento politico più rilevante per Hillary è avvenuto in un’aula sì politica, ma apparecchiata con paramenti forensi, con la forma e la sostanza di un’istruttoria, un contesto legale fatto di avvocati e procuratori dove la candidata ha mostrato di trovarsi meravigliosamente a proprio agio.
Nulla di strano per chi è cresciuto sotto la stella di Richard Nixon. L’accostamento, apparentemente ardito, fra Hillary e Nixon è ormai comune fra gli osservatori della politica di Washington. Bob Woodward, santo patrono del giornalismo d’assalto, ha detto che “l’enorme quantità di dati dei server di Hillary mi ricorda le registrazioni di Nixon”, e dalla sponda politica opposta Pat Buchanan conferma: “Ha qualcosa di simile a Nixon”. La somiglianza l’ha messa a fuoco Sam Tanenhaus, gran studioso del conservatorismo e per decenni penna del New York Times, in un saggio apparso su Bloomberg View. La somiglianza non riguarda, naturalmente, il contenuto politico, è un’analogia che poggia sul metodo più sul merito. A partire dall’interrogatorio clintoniano della commissione su Bengasi, Tanenhaus osserva il più ampio processo di “trasformazione della nostra politica in un’inchiesta permanente”, dove la gestione del potere si esprime di più davanti a una giuria che davanti all’elettorato. E’ un fenomeno generalizzato e trasversale. Hillary non ha tratto lustro e forza nei sondaggi da quell’episodio soltanto perché aveva una buona linea difensiva – e ce l’aveva – ma anche perché i conservatori hanno delegato tanto, troppo, della loro capacità offensiva a una commissione d’inchiesta. Con Nixon la politica americana è diventata un affare tribunalizio, travagliesco, un gioco di sputtanamenti legali a suon di prove e leak, con conseguente costruzione di un apparato difensivo uguale e contrario da parte dell’imputato. Hillary padroneggia quest’arte, “e la cosa non è sorprendente – scrive Tanenhaus – ha imparato le regole da Nixon. E’ lui il presidenziale autore della politica moderna”.
[**Video_box_2**]Mentre la politica moderna veniva partorita, Hillary assisteva al travaglio da pochi passi. Quando la commissione giudiziaria della Camera si stava preparando a incastrare il presidente in modo definitivo, per fare l’enorme lavoro di raccolta e organizzazione delle fonti legali il Congresso ha assoldato le migliori teste formate nelle migliori scuole di legge del paese. Hillary aveva 26 anni e si era da poco laureata a Yale. I maligni ricorderanno che ha ottenuto l’incarico soltanto perché il suo ragazzo, Bill, non aveva voglia di affrontare quel lavoro pedante e senza gloria, e ha offerto a lei la prestigiosa incombenza. Quelle settimane di studio intensissimo a porte chiuse le hanno offerto l’opportunità di immergersi nello stile e nella mentalità nixoniana, quella di un uomo che nei suoi nastri privati, preparati in vista della difesa in aula, “giustificava e razionalizzava quello che aveva detto in precedenza per negare o minimizzare il suo coinvolgimento nelle iniziative della Casa Bianca per aggirare le leggi e la Costituzione. Era straordinario sentire Nixon che faceva le prove della sua difesa”, ha ricordato Hillary molti anni dopo, quando ormai aveva interiorizzato il modus operandi. La legacy clintoniana è intimamente connessa con la tribunalizzazione della politica, con l’elevazione del metodo Nixon a dimensione permanente, sistematica, del dibattito. Si va dalla difesa dello scandalo immobiliare Whitewater fino al cavilloso “I did not have sexual relations with that woman” nello scandalo Lewinsky. E’ stata Hillary a coniare il termine “war room” nella campagna elettorale del 1992: il gabinetto di guerra aveva lo scopo di parare e rispedire indietro gli attacchi lanciati contro suo marito o contro qualcuno della galassia elettorale. Accanto al gabinetto di guerra c’era il “Defense Team”, che agiva in modo “nascosto, invisibile, e soltanto un piccolo gruppo di insider sapeva che cosa stava facendo”, come hanno scritto Jeff Gerth e Don Van Natta in una biografia intitolata “Her Way”.
Erano strumenti elettorali che si muovevano nella logica dell’accusa e della difesa, un gioco di inquirenti e istruttorie preparato con zelo avvocatesco, uno sforzo che richiedeva strutture permanenti e un lavoro incessante. Il filone delle “oppo research”, le ricerche negli armadi degli avversari alla ricerca se non di uno scheletro almeno di un ossicino, sono diventate una scienza nell’accademia clintoniana, così come gli attacchi alla stampa, e l’antica querelle con il New York Times non è che l’esempio più illustre. L’idea della “campagna permanente” è stata formulata nella cerchia di Jimmy Carter, e assorbita in diretta dai Clinton in ascesa. Sono tutte cose che esistono dall’alba della politica, inclusa quella americana, ma Nixon le ha elevate a metodo, la famiglia Clinton le ha rese una “machine”, una grandiosa macchina elettorale che risponde alla legge della politica come affare inquisitorio. In quest’ottica, le undici ore dell’interrogatorio su Bengasi sono politicamente più rilevanti delle 13 ore in cui nella città libica un commando terroristico ha preso d’assalto il consolato americano, uccidendo l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre americani. Bernard Nussbaum, consigliere storico di famiglia, già decenni fa suggeriva di intersecare il più possibile il piano politico e quello legale, un buon modo “per tirare giù un presidente”. Hillary vorrebbe riuscire a dimostrare che la via del legal drama è anche un buon modo per tirarlo su, un presidente.
L'editoriale dell'elefantino