La guerra dell'Europa a Israele
L’11 novembre 2015 sarà ricordato come una data speciale nelle relazioni fra Europa e Israele. Il giorno dopo la commemorazione della Kristallnacht, la Notte dei cristalli nazista, a ridosso della visita in Europa del presidente iraniano Hassan Rohani, che proprio ieri si è augurato la scomparsa dell’“illegittimo” stato ebraico, in occasione del quarantesimo anniversario della risoluzione Onu che ha equiparato sionismo e razzismo, nel bel mezzo della “Terza Intifada” dei coltelli che ha già causato undici vittime fra gli israeliani, la Commissione europea ha approvato una speciale marchiatura dei prodotti dello stato ebraico. Non accadeva dai tempi di Hitler che le merci degli ebrei venissero discriminate con uno speciale stigma, un simbolo distintivo che ne ricorda un altro ben più sinistro.
Siamo al punto più basso delle relazioni fra Bruxelles e Gerusalemme. L’ex ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, si è recato in un supermercato della capitale israeliana e, in segno di protesta, ha incollato stelle di Davide sulle merci israeliane e “made in Europe” su quelle del Vecchio Continente. L’azienda vinicola Bazelet sul Golan ha deciso di spedire le sue bottiglie in Europa avvolte da una bandiera israeliana, in segno di sfida. Studenti israeliani hanno assediato al grido di “never again” la casa di Lars Faaborg-Andersen, l’inviato Ue a Gerusalemme. Il presidente israeliano, Reuven Rivlin, intanto cancellava un viaggio in Europa, il ministro Uri Ariel vendeva la sua Citroën per una Mazda giapponese e il premier, Benjamin Netanyahu, tacciava gli europei di essere senza “vergogna”.
L’11 novembre è stata una data storica per il movimento Bds: “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni”. Cos’è, come si è sviluppato, quali obiettivi si pone questa campagna globale per trasformare Israele in un paria? Ieri lo ha spiegato Ngo Monitor: “Dopo la marchiatura, passeranno all’esclusione dei prodotti israeliani”. La decisione della Commissione Ue è il frutto della precedente di tre paesi che avevano iniziato a marchiare i prodotti israeliani (Belgio, Danimarca e Inghilterra) su pressione del Bds. Come spiega Ohad Cohen, che dirige la sezione commercio estero del ministero israeliano dell’Economia, la marchiatura Ue riguarda cento compagnie israeliane.
“E’ soltanto il primo passo” ha detto Oded Eran, ex rappresentante d’Israele all’Unione europea: “Il prossimo passo sarà che i parlamenti nazionali non consentiranno la circolazione delle merci dagli insediamenti”. Ieri, il parlamentare della sinistra israeliana, Itzik Shmuly, ha ben spiegato che “gli abitanti di Amburgo o di Copenaghen non hanno idea di dove inizi e dove finisca la Linea Verde, per cui la decisione della Commissione finirà per tradursi in un boicottaggio generalizzato contro Israele in quanto tale. Purtroppo l’Europa ha vergognosamente deciso di rafforzare in questo modo coloro che conducono la campagna per il boicottaggio di Israele, il cui obiettivo è cancellare Israele dalla carta geografica e non certo promuovere la pace”.
Il maggiore quotidiano israeliano, Israel Hayom, sostiene che “il proprietario di un negozio di Tolosa non si preoccupa di distinguere fra un prodotto fabbricato a Beit El e uno fabbricato a Tel Aviv: per non avere rogne, semplicemente scarterà entrambi a favore di un prodotto fatto a Lisbona. Moralmente parlando, questo tipo di etichettatura dei prodotti è simile alla stella gialla di Davide dei tempi bui. E’ il primo passo su una strada che non si sa fin dove può portare”.
Gli effetti pratici della marchiatura si sentono già. “Il danno è immenso” ha detto David Elhayani, capo del Consiglio della Valle del Giordano. “Oggi non spediamo quasi più nulla verso l’Europa occidentale”. Edom, un importante produttore di frutta israeliana, ha detto al giornale economico The Marker: “Gli importatori europei ci dicono che non possono vendere prodotti israeliani. Tutti hanno paura di vendere frutta israeliana”.
Il primo caso di boicottaggio di Israele si registrò nel 1980 con l’Oreal, che aveva acquistato la Helena Rubinstein. Aveva floridi commerci in Israele, ed era suo interesse difenderli. Ma i regimi arabi minacciavano di troncare le lucrose relazioni con la multinazionale, se questa non avesse tagliato con gli ebrei. Anzichè rifiutare il ricatto, l’Oreal si piegò. Oggi non sono più gli stati arabi a guidare il boicottaggio, ma la società civile, le università, i sindacati, le ong, le chiese, le aziende. L’effetto è quello di una delegittimazione internazionale. Ufficialmente il Bds è stato lanciato a seguito della Conferenza mondiale delle Nazioni Unite contro il razzismo nel 2001. Fu lì che furono gettate le basi della “strategia Durban”, una campagna condotta attraverso gli organismi delle Nazioni Unite, le organizzazioni non governative, il Forum Sociale Mondiale e l’Unione Europea, appunto.
Fu allora che le ong e i militanti filopalestinesi decisero di marchiare Israele con l’accusa, falsa e demonizzante, di “apartheid” e di “occupazione”. Fu lanciato allora lo slogan “Bds”. Tre lettere capitali per indicare tre parole e piani di azione ben precisi. Esiste anche una app per Android, “Buy no evil”, che guida il consumatore al boicottaggio delle merci israeliane.
Ieri la ong palestinese Al Haq, che riceve finanziamenti da parte dei governi di Gran Bretagna, Germania, Svezia, Belgio, Olanda, Svizzera, Danimarca, Irlanda, Norvegia, Spagna e Nazioni Unite, ha dichiarato che l’etichettatura delle merci israeliana è un “misura temporanea” prima del completo divieto di tutti quei beni. Prima si etichetta, poi si boicotta.
Il Bds sostiene di essere un movimento pacifico il cui obiettivo è quello di utilizzare “mezzi economici punitivi” per fare pressione su Israele e correggere i torti subiti nei Territori palestinesi. In realtà, Bds è una guerra asimmetrica per coordinare la strategia violenta dei “negazionisti” palestinesi, arabi e musulmani, che si sono rifiutati di fare la pace con Israele per settant’anni. Più e più volte, quando e dove è emerso, il Bds ha rapidamente espulso qualsiasi critica moderata delle politiche israeliane.
Natan Sharansky ha scritto che il Bds non supera il test delle “tre D”, usato per capire quando le critiche diventano odio: doppio standard (si prende di mira soltanto Israele fra oltre 200 contese territoriali nel mondo, dal Tibet all’Ucraina); demonizzazione (si distorcono le azioni dello stato ebraico per mezzo di paragoni con il nazismo e l’apartheid); delegittimazione (si nega il diritto di Israele ad esistere, unico fra tutti i popoli del mondo).
Un anno fa l’Unione Europea ha siglato un accordo con il Marocco che sancisce il suo diritto di sfruttare le risorse del Sahara occidentale. Nessuna accusa, in questo caso, di “occupazione” o marchiatura speciale. Lo stesso accade con Cipro settentrionale, invaso dalla Turchia. Così, nessun Bds è stato lanciato contro la Cina che imprigiona gli accademici dissidenti; contro l’Iran, che condanna a morte gli accademici dissidenti; contro Cuba, le cui università non hanno accademici dissidenti; contro l’Autorità Palestinese, la cui università non permettono un dibattito libero e aperto sul conflitto israelo-palestinese. No: c’è un Bds unicamente contro lo stato ebraico, che vanta uno dei più alti livelli di libertà accademica del mondo.
Il Bds vuole apparentemente correggere gli errori specifici compiuti da Israele nei confronti dei palestinesi, ma attacca le fondamenta di tutto Israele: tutti gli israeliani sono collettivamente colpevoli. Si boicotta l’unica società del medio oriente dove gli arabi leggono una stampa libera, manifestano quando vogliono, mandano i propri rappresentanti in parlamento e godono degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini. Il Bds alimenta una narrazione storica unilaterale che nega ogni responsabilità dei palestinesi per la distruzione di possibilità di pace e di riconciliazione, dalla fondazione di Israele nel 1948, per gli accordi di Oslo del 1993, per i colloqui di Camp David nel 2000, per il ritiro di Israele da Gaza nel 2005, fino ad oggi.
Non solo, ma la decisione della Commissione colpisce anche le alture del Golan, che non hanno nulla a che fare con il contenzioso israelo-palestinese. Non c’è un solo palestinese che viva sulle alture del Golan. Ci sono invece numerose milizie di tagliatori di teste di là dal confine.
Poiché il desiderio di punire Israele rappresenta economicamente una minoranza dell’opinione pubblica, il Bds collega il suo messaggio a università, chiese, aziende straniere, municipi. Storicamente, questa campagna usa strumenti come le petizioni (firmate da studenti, docenti e personale amministrativo) che invitano un college o una università a uscire da imprese che beneficiano Israele; incontri con gli amministratori del campus e i manager per suggerire il disinvestimento; picchetti.
Nel mondo accademico, la sequenza del Bds è familiare: gruppi di studenti e professori organizzano una conferenza come la “Israeli Apartheid Week”, demonizzando Israele come il principale problema del medio oriente, usano parole d’ordine come “ampliare la gamma del dibattito accademico” e spesso si finisce con il boicottare un prodotto israeliano all’interno dei campus, come le macchine per l’acqua minerale Sodastream.
Il Bds è una violazione dei più basilari valori che stanno alla base della convivenza civile: la libera circolazione delle idee e delle persone, la libertà religiosa e di coscienza, il rispetto della dignità della persona. Inoltre, il Bds si basa sulla falsificazione di un grande principio che anima Israele: la libertà di ricerca. L’ironia è che il Bds colpisce Israele la cui fame di cultura ne ha fatto il primo paese al mondo per numero di lauree pro capite, il primo paese al mondo per numero di musei pro capite e il secondo paese al mondo per numero di libri pubblicati pro capite.
I docenti israeliani pro-palestinesi possono esprimere liberamente le loro opinioni sia nella didattica sia sui mass media. Lungo è l’elenco di centri universitari israeliani apertamente attivi nella cooperazione con i palestinesi. All’Università di Haifa, il venti per cento degli studenti appartiene alle minoranze israeliane, senza considerare che molti degli stessi capi del Bds, come Omar Barghouti (che mesi fa ha compiuto un tour delle università italiane), si sono formati nelle università israeliane. E i palestinesi costituiscono il 75 per cento dei lavoratori nelle “colonie” prese di mira dall’Unione Europea. Sono loro adesso a rischiare il proprio posto di lavoro.
La prima volta accadde in Francia durante la Seconda Intifada. Mentre in Israele gli ebrei saltavano in aria sugli autobus e nei centri commerciali, al campus Pierre e Marie Curie dell’Università VI di Parigi, gli accademici adottarono una mozione che prevedeva la fine di ogni legame e cooperazione accademica con i centri di ricerca israeliani. Ventidue accademici francesi votarono a favore, sei si astennero e soltanto quattro votarono contro. Il premio Nobel per la Fisica, Claude Cohen Tannoudji, espresse la propria “vergogna per questi colleghi che osano gettare un anatema su degli altri colleghi a causa della loro nazionalità”. Siamo alla terza di Intifada e il Bds è dilagato nelle università europee (alcuni giorni fa, 350 docenti inglesi hanno lanciato il boicottaggio accademico).
Un ostracismo “silenzioso” che ha conseguenze pratiche terribili: impedire che ricercatori israeliani ottengano fondi di ricerca, fare pressione sulle facoltà per interrompere le relazioni con i dipartimenti israeliani, convincere i docenti europei a non visitare Israele, non invitare gli israeliani alle conferenze, prevenire la pubblicazione all’estero di articoli di ricercatori israeliani, negare raccomandazioni agli studenti che intendono fare ricerca in Israele e creare un cordone sanitario attorno alle riviste accademiche israeliane.
L’accusa allo stato ebraico come “nuova apartheid” è la più efficace, in quanto evoca il precedente delle sanzioni contro il regime del Sudafrica. Nel settore delle ong e dei forum globali, sui media occidentali e nei suoi parlamenti, è quotidianamente stabilita l’equazione fra Israele e l’apartheid del Sud Africa. Famose personalità pubbliche, come l’arcivescovo e Nobel Desmond Tutu e l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, basano la loro campagna contro Israele su questa accusa di apartheid.
L’analogia è ovviamente immorale e perfida. L’apartheid era un sistema totalitario di governo, in cui una minoranza bianca soggiogava la popolazione nera e ne violava tutti i diritti. In Israele, ebrei e arabi condividono spazi pubblici, autobus e scuole. In Israele, tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Gli arabi israeliani attualmente siedono alla Corte Suprema, anche i partiti arabi più ostili a Israele hanno dei saggi al Parliamento israeliano. In tutti gli ospedali di Israele, medici e infermieri, ebrei e arabi, lavorano fianco a fianco curando pazienti arabi ed ebrei.
Il Bds può già vantare numerosi “successi”, che non sono in grado da soli di piegare l’economia israeliana, ma che stanno alimentando un clima di sospetto e ostilità verso Israele in Europa. E’ come se il “made in Israel” sia diventato un agente patogeno. Un infettante. Sodastream, il cui business principale sono le bibite gassate, ha chiuso la sua fabbrica in un insediamento. Agrexco, il più grande esportatore israeliano di prodotti agricoli, è entrato in liquidazione anche a seguito di una campagna di manifestazioni, lobbying dei supermercati e dei governi, boicottaggi popolari e l’azione legale in più di tredici paesi in tutta Europa. La più grande cooperativa in Europa, il Co-operative Group nel Regno Unito, ha introdotto una politica discriminante verso i prodotti provenienti dagli insediamenti. Ahava, la società di cosmetici israeliana, ha dovuto chiedere il suo flagship store e alcuni rivenditori a Londra, in Norvegia e Canada e la famiglia Disney ne ha dismesso gli investimenti. Una catena di supermercati irlandese, Supervalu, ha smesso di distribuire le carote israeliane. McDonald’s si è rifiutata di aprire un fast food nella città israeliana di Ariel nei Territori. L’Università di Johannesburg ha reciso i legami con la Ben-Gurion University di Israele. Campagne contro la collaborazione finanziata dalla Ue con aziende israeliane private e le università israeliane sono spuntati nei campus di tutta Europa. Sindacati accademici nel Regno Unito e Canada, dai medici agli architetti, hanno votato per sostenere varie iniziative di boicottaggio. Decine di artisti – soprattutto musicisti e cineasti – e scrittori si sono rifiutati di esibirsi in Israele o hanno annullato le loro performance in seguito alle pressioni del Bds. La multinazionale francese Veolia è stata preso di mira in molti paesi a causa della sua fornitura di servizi a Israele. Il fondo pensione norvegese ha disinvestito da Israele.
Alcune importanti organizzazioni sindacali in Europa stanno tagliando i legami con Histadrut, il sindacato israeliano. Deutsche Bank, la più grande banca tedesca, ha incluso la Poalim Bank israeliana in una lista di compagnie riguardo le quali gli investimenti sollevano “questioni etiche”.?Lo stesso ha fatto la più grande banca danese, la Danske Bank. Vitens, azienda olandese leader dell’erogazione dell’acqua, ha tagliato con l’omologa israeliana Mekorot. E i casi non si fermano qui. E se in Norvegia i due maggiori importatori di verdure, Bama e Coop, non importano più frutta e verdura prodotte negli insediamenti, la Unilever, che realizza prodotti casalinghi come lo shampoo Sunsilk e la vaselina, ha venduto la propria quota del 51 per cento nelle fabbriche degli insediamenti.
Le linee pre o post 1967, a cui fanno riferimento le etichettature previste dalla Commissione, sono soltanto un alibi. I sostenitori del Bds considerano Israele un’entità intrinsecamente illegale anche all’interno delle linee armistiziali del 1949. Una delle immagini simbolo del movimento mostra tutta la Palestina, pre e post 1967, circondata da filo spinato, come se fosse un unico gigantesco insediamento da abbattere.
Gruppi e attivisti pro-boicottaggio non ne fanno mistero. Basta dare un’occhiata ai loro siti web, alle loro conferenze su YouTube, a tutto il loro materiale di propaganda contro Israele. In un’intervista fu chiesto a Omar Barghouti, uno dei fondatori del Bds: “La fine dell’occupazione porrà fine alla campagna?”. “No”, fu la sua risposta senza mezzi termini. In un’intervista lo storico americano Norman Finkelstein, grande sostenitore del movimento Bds, ha affermato che Israele ha ragione quando dice che il movimento vuole distruggerlo: “Si parla proprio di distruggere Israele, non intendo mentire”. Finkelstein aggiunse: “Vengono chiamati i tre livelli: vogliamo la fine dell’occupazione, vogliamo il diritto al ritorno di milioni di profughi e discendenti di profughi dentro Israele e vogliamo la parità per gli arabi in Israele. Si sa benissimo qual è il risultato dell’attuazione di tutti e tre questi obiettivi: Israele non esiste più”.
Il Bds si basa su una serie di slogan politici molto semplici, come “stato di apartheid”, “regime di occupazione”, “violatore del diritto internazionale” e “repressivo”. La natura della campagna è tale da fare appello ai sentimenti umanitari dei gruppi di base a cui indirizzare i loro sforzi – giornalisti, intellettuali, studenti nei campus, charities, dipendenti pubblici, partecipanti agli eventi culturali, enti commerciali che hanno rapporti con Israele. L’obiettivo è manipolare queste persone, instillando nelle loro menti un intrinseco pregiudizio contro Israele. Questo pubblico mirato può facilmente e sinceramente identificarsi nelle battaglie Bds contro la discriminazione, l’ineguaglianza, e il colonialismo.
[**Video_box_2**]Questo movimento è composto da un numero relativamente piccolo di attivisti a tempo pieno e ben finanziati, come Omar Barghouti e Nabil Sha’att. Organizzano eventi per lo più in Europa e in Nord America, raccolgono fondi e organizzano seminari, conferenze e dimostrazioni a sostegno del movimento per isolare e boicottare Israele in ogni modo possibile.
Il modo di operare del Bds include lo stalking del pubblico, le minacce di azioni legali contro aziende straniere che investono in Israele, manifestazioni di fronte a fornitori e negozi, la pressione nelle istituzioni accademiche, finché essi non si saranno dissociati da qualsiasi legame con Israele. L’istigazione, l’incoraggiamento e il sostegno attivo di questa campagna diretta alla delegittimazione di Israele nella comunità internazionale attraverso l’uso di strumenti legali, civili e politici è un’arma considerata ormai sempre diffusa e più accettabile per generare un più ampio sostegno nella comunità internazionale.
Daniel Levy, direttore della sezione mediorientale allo European Council on Foreign Relations, ieri ha sintetizzato così quanto approvato dalla Commissione Europea: “Come minimo è un mal di testa, ma potrebbe avere un effetto devastante”. Dopo l’approvazione della marchiatura da parte di Bruxelles, a cosa punta il Bds? Ecco alcune misure pratiche già al vaglio della Commissione Europea: le banche israeliane che offrono mutui ai proprietari di case in Cisgiordania potrebbe esporsi a ripercussioni; le catene di vendita al dettaglio che detengono negozi negli insediamenti potrebbero essere escluse dal mercato europeo; i produttori che utilizzano parti realizzate nelle fabbriche israeliane potrebbero anche loro subire speciali marchiature o sanzioni; gli israeliani che vivono negli insediamenti potrebbero perdere il privilegio che consente oggi ai cittadini israeliani di viaggiare in Europa senza visto; le università israeliane nei Territori si vedrebbero private del riconoscimento di Bruxelles e le squadre di calcio israeliane nei Territori (Ma’aleh Adumim, Ariel, Kiryat Arba, Bik’at Hayarden e Givat Ze’ev) potrebbero essere escluse dalla Uefa. E la lista delle misure europee contro Israele non si ferma qui.
L’11 novembre 2015 si è passati dal nazista “Kauft nicht bei Jüden”, non comprate dagli ebrei, al “Kauft nicht beim Jüdenstaat”, non comprate dallo stato ebraico. Allora lo slogan era “Geh nach Palästina, du Jud”. Ebrei, andate in Palestina! Oggi il motto del boicottaggio è: “Ebrei, fuori dalla Palestina!”.
I conservatori inglesi