Ci balocchiamo con “Imagine” di John Lennon mentre il jihad ammazza
E’ lo stesso clima del post Londra 2005. Anche allora quasi tutti i direttori di giornali si spesero in lacrimose geremiadi sul fatto che no, i terroristi non avrebbero cambiato “il nostro stile di vita”. Come se a Parigi, la notte scorsa, ci avessero impedito di guardare una partita, di ascoltare una canzone, di mangiare un piatto cambogiano. Secolarismo sciatto e banale, che non penetra il fenomeno che ha di fronte. Cercano sempre un capro espiatorio, ieri l’Iraq, oggi Assad, domani chissà. Il 7 gennaio avevano tirato tutti un sospiro di sollievo, “è per i vignettisti”, dissero. Oggi è più difficile pensare che non li riguardi tutti.
Non abbiamo capito che è una guerra religiosa, non l’ipotesi di pochi sbandati fanatizzati. Non abbiamo capito che è un problema di stati e leadership, non di frontiere e corpi di polizia e targhe d'auto. Non abbiamo capito che questi terroristi abitano la democrazia e sanno usarla. Che hanno più fantasia di noi. Che sono coloro che assaporano “la sensazione forte e deliziosamente perversa del sangue versato”, come scrisse Varlam Salamov, che fu rinchiuso venti anni nei Gulag. Il fanatismo politico-religioso è questo, mica sadismo. E’ come se non fosse successo nulla dall’11 settembre: nascondiamo le immagini delle stragi per non spaventare la gente, al più facciamo vedere chi si cala dal Bataclan; nascondiamo che gli attentatori sono insider, che li abbiamo cresciuti noi nella banlieu; nascondiamo che siamo prigionieri delle nostre libertà; nascondiamo sotto perversi slogan umanitari la rinuncia a batterci; nascondiamo i criteri fondativi della nostra civiltà.
[**Video_box_2**]E’ lo stesso clima del dopo 7 gennaio. Allora rispondemmo con “Je Suis”, salvo poi abiurarlo il giorno dopo; oggi con “Imagine” di John Lennon, suonata per strada a Parigi. Con le pubblicitá dell’Unhcr in tv a favore dei migranti, e tanti saluti se qualche tagliateste è entrato. Con i fiori deposti di fronte alle brasserie colpite dal jihad. Con gli U2 che rendono omaggio al teatro. Con gli slogan “siamo tutti francesi”. Con un Papa, lo stesso del pugno a Charlie, che non si capacita di come si possa uccidere in nome di Dio, quando il suo predecessore aveva ben spiegato che il problema è proprio quel Dio, il loro e non il nostro. Lo dicono tutti i capi del terrore. “Noi vinceremo, perché essi amano la vita e noi amiamo la morte”, ha detto il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Osama bin Laden aveva dichiarato: “Noi amiamo la morte. Gli Stati Uniti amano la vita. Questa è la grande differenza tra noi ...”. “Gli americani amano la Pepsi-Cola, noi amiamo la morte”, aveva spiegato Maulana Inyadullah, un membro operativo di Al Qaeda. Invece ci ripetiamo, assieme a quel maestro di retorica che è Obama, che a Parigi è stata attaccata “l’umanità”, non l’occidente e la sua cultura giudeo-cristiana, liberale, atea, agnostica. Diciamo “terrore”, dimenticando sempre di aggettivarlo. Ci balocchiamo con Israele, lo trattiamo da “occupante”, lo marchiamo, senza capire che è la nostra frontiera, la linea dell’occidente che vogliono distruggere. Così non ci siamo accorti che stavamo assaporando quello che gli ebrei israeliani devono subire, ogni giorno.