Ipocrisie e non solo. La tempesta perfetta dietro il dramma di Parigi
Un attacco multiplo, in una capitale europea, condotta da un commando composto da stranieri arrivati dalla Siria assieme alle masse di migranti che cercano rifugio in Europa e da “delinquenti” delle banlieues parigine, laddove si sperimenta senza successo il melting pot europeo. Cinture esplosive, chi racconta di aver sentito urlare “Allah Akbar”, chi invece, in modo se possibile più terrificante, ricorda il silenzio degli attentatori, il loro sguardo deciso, spietato, le mani abili con le armi che fermavano le esecuzioni soltanto per ricaricare il fucile. Poi lo stadio, il bar, la strada, il concerto. Tutto quel che di terribile si poteva immaginare è accaduto: la tempesta perfetta delle nostre paure, dei nostri tentennamenti e dei nostri imbarazzi.
Non abbiamo voluto studiare una strategia in Siria, quando scoppiò la rivolta contro il dittatore Bashar el Assad: “è complicato”, si diceva, bisognava salvaguardare il ruolo di stabilizzatore giocato, con parecchie ambiguità, da Damasco. Così il cosiddetto garante della stabilità ieri – mentre nella cittadina di Ghouta vicino alla capitale siriana (dove ci fu l’attacco chimico del 2013) l’opposizione al regime organizzava un sit in condannando l’estremismo islamista – ha detto che la Francia se l’è cercata: l’attentato “è il frutto della politica estera francese” (e poi Assad si è offerto rapace di dare una mano nella reazione, a patto naturalmente di non rischiare più il proprio posto).
Semmai si può dire che lo Stato islamico è anche il frutto del “failed state” siriano, ma il punto è che non avendo elaborato un piano nei confronti di Assad, ora ci troviamo costretti a gestire tutto quel che ne è derivato, come la la crisi migratoria, senza di fatto poter interagire con il governo di Damasco come interlocutore. E’ uno dei paradossi della non strategia: Assad è lì al suo posto, ma non è di alcun aiuto (anzi, continua la repressione). Anche il paradosso della questione dei rifugiati è lampante. L’Europa non è riuscita a creare una politica comune, ognuno ha fatto per sé, cambiando in corsa l’approccio di fronte all’emergenza, e il piano di redistribuzione non è mai decollato. “A questo ritmo assorbiamo questa ondata nel 2101”, ha detto il capo della commissione Junker, e il ritmo peraltro sarà ben più alto di questo. Ora però quei passaporti siriani trovati vicino agli attentatori rimettono in discussione una già inefficace politica: arrivano terroristi assieme ai rifugiati, fermiamoli. Il passaporto siriano è il simbolo di tutti i paradossi: i siriani scappano dalle bombe del loro dittatore e dalla conquista jihadista, sono i più disperati della regione, ma quando si presentano alle nostre frontiere diventano i più invidiati, e c’è la gara a dire “io sono siriano”, assieme a un ben noto traffico di passaporti falsi.
Si potrà dire che queste sono questioni delicate che riguardano la sovranità dei popoli e gli interessi nazionali. Parliamo della guerra al terrorismo, allora, della guerra allo Stato islamico in Iraq e Siria, finora combattuta grazie al valoroso popolo dei peshmerga, alla copertura aerea americana e alle notizie, che sembrano sempre più sofisticate, di intelligence. Ora si parla di unità nella reazione “impietosa” annunciata da François Hollande, ma il fronte è già diviso. Al dibattito dei democratici americani, in Iowa nella notte tra sabato e domenica, l’unica ad avere un’idea del mondo è stata Hillary Clinton: il suo rivale più diretto, Bernie Sanders, ha detto qualche banalità solidale e poi si è messo a parlare della diseguaglianza. Ma pure Hillary, che ha un’esperienza gigantesca nella politica estera, nel momento in cui l’unità dovrebbe fare la forza, non parla di islamismo radicale, non lo chiama con il suo nome, si rifugia in quelle espressioni edulcorate che piacciono alla base liberal ma non fanno vincere le guerre. Quando poi ha detto che questa “non può essere una battaglia americana, anche se la leadership americana è essenziale”, chi si aspettava una reazione se non impietosa almeno dura da parte della Clinton si è sentito gelare (i repubblicani avranno di che divertirsi con la performance di Hillary a questo dibattito).
Il partito dell’“hit reset”, cambiamo strategia subito e bene e con decisione, non è per fortuna messo male: il New York Times racconta dei movimenti all’interno dell’Amministrazione Obama per non lasciare che “il crimine contro l’umanità” di Parigi resti senza conseguenze. Già negli ultimi giorni c’è stata un’escalation destinata a organizzarsi con una visione più precisa, e forse con l’invio di altri contingenti che, grazie al lavoro di intelligence sul campo, hanno permesso l’uccisione (quasi certa) di Jihadi John e quella del leader dello Stato islamico in Libia.
[**Video_box_2**]Ma nella battaglia delle idee, l’imbarazzo è di nuovo tutto qui. Il direttore di Libération, scrivendo sulla cover più bella e più straziante dei gornali francesi usciti domenica, sotto al titolo perfetto “Tuer le bonheur”, tradisce dolorasemente le aspettative: “Alcuni demagoghi rimproverano ai poteri pubblici il loro presunto lassismo nei confronti dell’integralismo. Ma non è il lassismo all’origine del massacro islamista: è la fermezza. Non è l’astensione o la negligenza, è la volontà di affrontare il terrorismo sul suo terreno, in Mali o in Siria” (la posizione di Assad!). Laurent Joffrin finisce il suo editoriale così: “La conclusione si impone con il suo terribile realismo: i francesi devono imparare a vivere con il terrorismo”. Nel momento dell’unità massima, a due giorni dall’attacco sconvolgente al “bonheur”, buona parte del paese in guerra si sta già rassegnando, senza nemmeno comprendere che i terroristi islamici vorranno uccidere per sempre il nostro bonheur, anche se dovessimo star lì ad accettare un destino di convivenza.
L’unica risposta possibile, oltre a “hit reset”, è l’hashtag più azzeccato di questi giorni, la via d’uscita dalla tempesta perfetta: i jihadisti dicono che Parigi è la città della perversione e per questo va colpita, noi diciamo che #Parisisaboutlife.