La crisi d'identità del giornale di Hong Kong tra Pechino e Alibaba

Eugenio Cau
Le difficoltà del South China Morning Post, uno dei quotidiani in lingua inglese più influenti dell'Asia

Roma. Il South China Morning Post è uno dei giornali più influenti di tutta l’Asia. Ha una tiratura molto limitata (circa centomila copie) se paragonata ad altri quotidiani asiatici (il Quotidiano del popolo, il giornale ufficiale del Partito comunista cinese, ha una tiratura di 3-4 milioni), ma ha due caratteristiche che lo rendono un giornale di rilevanza internazionale: è scritto in inglese ed è pubblicato a Hong Kong, una delle poche aree del continente, con l’eccezione dell’India e del Giappone, in cui la libertà di stampa è garantita. Se il lettore che non conosce il mandarino o il cantonese vuole sapere qualcosa degli ultimi scandali dei funzionari comunisti di Pechino, è il South China Morning Post (Scmp), e certo non i giornali cinesi sottoposti a censura, che deve sfogliare. Ma da settimane il Scmp è investito dalle polemiche. Negli ultimi sei mesi decine di giornalisti hanno rassegnato le dimissioni o sono stati licenziati dalla proprietà. Da questa primavera girano voci di un putsch favorevole a Pechino all’interno della redazione, e la scorsa settimana, quando è stata annunciata la nomina di un nuovo direttore considerato troppo vicino al governo locale e al Partito comunista cinese, molti giornalisti hanno pensato che i loro timori si fossero avverati, in un contesto, quello di Hong Kong, in cui la libertà di stampa, dicono le associazioni dei giornalisti locali, peggiora man mano che l’influenza politica di Pechino si fa più forte sulla città.

 

Dal prossimo primo gennaio, ha annunciato l’Scmp, anticipato dal tweet di un giornalista che ha subito diffuso un memo interno, la vicedirettrice Tammy Tam prenderà il posto del direttore Wang Xiangwei, e, secondo fonti interne al giornale sentite dal sito Hong Kong free press, per il nuovo direttore il modo migliore per giudicare una notizia è “attaccare dappertutto foto di CY Leung” (il governatore filocinese di Hong Kong, al centro delle polemiche durante la rivoluzione degli ombrelli dell’anno scorso). Il Scmp è sempre stato accusato di essere troppo vicino alle posizioni del governo cinese, ma la nomina di Tam è considerata il segnale di una precisa scelta politica, la prova che l’orientamento filo Pechino del giornale ormai è definitivo: la futura direttrice, dicono malignamente le stesse fonti, non conosce nemmeno bene l’inglese – non male per un giornale che ha l’inglese come sua lingua d’elezione. L’esodo dei giornalisti dal Scmp è in corso da tempo: almeno una trentina negli ultimi sei mesi, compresa l’intera sezione internazionale e gran parte della redazione che si occupa del digitale, oltre a veterani, columnist famosi e giornalisti premiati per i loro articoli. Con la nuova direzione di Tam, pare, le cose potrebbero peggiorare.

 

[**Video_box_2**]E mentre ancora la redazione cercava di capire come reagire alla notizia del nuovo direttore, il China Daily lunedì ha scritto che Alibaba, gigante dell’ecommerce cinese fondato dal miliardario Jack Ma, starebbe trattando per un investimento consistente nel Scmp. Il paragone con Jeff Bezos, fondatore di Amazon appena nominato quarto uomo più ricco del mondo e dal 2013 proprietario del Washington Post, è stato subito evidente per tutti, ma al tempo stesso la possibilità di un editore cinese ha suscitato nuove preoccupazioni. Il giornale attualmente è posseduto dalla famiglia Kuok, malesiana ma di origini cinesi, che ha ampi investimenti in Cina. Il Scmp non ha commentato il presunto interessamento di Alibaba, ma la notizia è plausibile: da anni Jack Ma si espande nel mondo dei media, e il suo ultimo acquisto, la piattaforma video Youku, lo YouTube cinese, vale 4,8 miliardi di dollari. Molti giornalisti però temono la vicinanza di Jack Ma con il regime. Lui si è sempre tenuto lontano dalla politica, ma in un’intervista famosa (e poi ritrattata) proprio all’Scmp disse, per esempio, che nel 1989 la repressione delle proteste di piazza Tiananmen nella violenza fu “la decisione più ragionevole” che i leader cinesi potessero prendere.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.