Aux armes
La guerra di Hollande e la retorica di Obama
New York. Davanti al Parlamento riunito a Versailles, François Hollande ha fissato i termini della sua guerra al terrore, faccenda che non lascia dubbi sull’esito finale: “Il terrorismo non distruggerà la Repubblica francese, ma sarà la Francia a distruggere il terrorismo”, ha detto Hollande, articolando davanti al mondo uno sforzo militare per “sradicare e distruggere” lo Stato islamico, senza traccia delle illusioni del contenimento né di rimedi omeopatici del genere multilaterale prediletto da Obama. Hollande discuterà presto con il presidente americano e con Putin, ma lunedì ha messo sul tavolo le iniziative unilaterali della Francia: triplicare l’ampiezza delle forze armate impegnate, intensificare i bombardamenti, inviare la portaerei Charles de Gaulle nel Mediterraneo orientale; lo stato di emergenza esteso per tre mesi grazie a una riforma della Costituzione da mettere al voto già domani, perché il paese ha bisogno di “un regime costituzionale in grado di gestire la lotta a questo nemico”. E ancora controlli rafforzati alle frontiere, perdita della cittadinanza per i francesi che collaborano con il nemico, espulsioni più facili, aumento delle spese militari in barba alle promesse di riordinare i conti: “Il patto di sicurezza è più importante del patto di stabilità”.
Hollande ha detto che la Francia è in guerra “contro i codardi”, non è uno scontro di civiltà “perché questi assassini non rappresentano alcuna civiltà”, e ha invitato tutti a “continuare a vivere e influenzare il mondo”, la risposta civile più efficace contro il terrorismo. Il balzo in avanti di Hollande, eseguito con la gravità del capo di stato che annuncia l’ingresso in guerra, ha messo in luce, per contrasto, la solita prudenza di Obama, che dalla Turchia ha dato l’ennesimo saggio di calcolata indecisione, ripetendo la sua avversione inflessibile per i “boots on the ground” e la fedeltà totale alla famosa e fumosa strategia americana in Siria, al solito condita dalla radicale separazione fra islam e terrorismo. Il nemico è sempre un estremista senza aggettivi.
Mentre ripeteva queste cose – per la frustrazione dei cronisti: un disperato Jim Acosta della Cnn gli ha chiesto “perché non possiamo eliminare questi bastardi?” – a Washington il direttore della Cia, John Brennan, diceva che gli attacchi di Parigi non sono un episodio isolato, e lo Stato islamico ha in cantiere altre operazioni simili, annotazione che fa venire in mente i tempi, nemmeno troppo remoti, in cui il presidente giudicava lo Stato islamico un “JV team”, una squadra di riserve.
Le minacce riportate da Brennan ricordano che la guerra rinfocolata – e tuttavia non innescata – a Parigi non è un affare francese da risolvere con un “aux armes, citoyens” cantato dopo una dichiarazione di guerra, ma una questione occidentale e globale. E se la retorica di Obama non è cambiata, la dinamica geopolitica sta virando, e i 35 minuti di colloquio con Putin hanno silenziato ogni intonazione critica verso l’iniziativa russa. Improvvisamente i raid di Mosca non sono più “controproducenti”. Il gran consigliere obamiano Ben Rhodes ha detto che, più dell’invio di truppe americane, è “più sostenibile ed efficace avere forze di opposizione sul campo in Siria”, affermazione abbastanza generica per essere applicata anche a un’alleanza tattica con la Russia, invocata con forza crescente.
[**Video_box_2**]Il Cremlino, naturalmente, ne ha approfittato per mettere il dito nelle divisioni transatlantiche sulla lotta al terrorismo (“Raggiungere un accordo è assolutamente impossibile, perché lo stesso concetto di occidente non esiste”, ha detto il portavoce Dmitri Peskov) ma intanto lavora per indurre uno “shift” politico nell’Europa che dopo gli attentati di Parigi rivaluta le opzioni praticabili alla luce dell’interventismo francese. Lo stesso ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, ha detto che “reagiremo insieme ai francesi” e la “situazione impone di fare di più” contro lo Stato islamico. Obama, superato retoricamente da Hollande nel ruolo di leader del mondo libero, ripete il ritornello isolazionista mentre la sua posizione sul campo lentamente “evolve”, per usare un altro termine caro al presidente.
I conservatori inglesi