Sisi alle prese con gli attentatori del Sinai
“Credetemi, la situazione nel Sinai è sotto il nostro pieno controllo”, aveva commentato il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi all’indomani della strage del Metrojet. Le autorità del Cairo tentano da giorni di minimizzare la natura della tragedia per evitare pericolosi danni all’immagine del paese che potrebbero penalizzare l’industria del turismo su cui si basa buona parte dell’economia nazionale. Martedì, una giornalista della tv di stato ha detto che se anche si dovesse scoprire che gli estremisti islamici hanno abbattuto l’aereo bisognerebbe chiedersi: “Chi ha portato i terroristi in medio oriente? Non sono stati forse gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Turchia?”. L’Egitto resta un perno della strategia internazionale di lotta all’estremismo nella regione, soprattutto in Libia, ma il paese è sempre più attratto dal decisionismo russo contro il terrorismo islamico, piuttosto che dalla prudenza obamiana. In un lungo editoriale del giornale filo governativo al Ahram, Ahmed el Sayyed el Naggar ha scritto: “Dobbiamo capire chi sono i nostri veri amici. Basta guardare al passato, al tradimento dell’aggressione tripartita del 1956 o alla guerra difensiva del 1973”, ha scritto Naggar riferendosi a Regno Unito, Francia e Israele. “La Russia è la punta di lancia contro il terrorismo e va sostenuta”, è il corollario dell’articolo. Dopo gli attentati di Parigi, Sisi ha espresso la sua solidarietà alla Francia e ha offerto il suo sostegno alla lotta al terrorismo. La speranza del presidente è che “finalmente i governi occidentali cambieranno i loro rapporti con i salafiti e i Fratelli musulmani dopo gli attentati di Parigi”, ha scritto al Wafd, uno dei quotidiani più diffusi in Egitto. “Non solo la Francia ma anche altri paesi europei cambieranno atteggiamento verso i partiti islamici”. Sisi si aspetta che l’occidente cambi rotta e cominci ad apprezzare i suoi sforzi nella lotta al terrorismo.
[**Video_box_2**]Nel Sinai, gli attacchi dei terroristi islamici sono saliti a 356 quest’anno, dieci volte in più rispetto al 2012. “La controffensiva dell’esercito non vedrà un cambiamento di strategia per il momento”, dice al Foglio Tewfik Aclimandos, membro del Comitato scientifico della Fondazione Oasis. “L’esercito sa dove si trovano i jihadisti nel Sinai e ha lanciato diversi attacchi mettendoli in difficoltà, chiudendo i loro canali di rifornimento per le armi con Gaza”. Quattro grandi operazioni militari sono state lanciate negli ultimi tre anni nella penisola causando la morte di 3 mila persone solo nel 2015. L’Operazione del Martire, l’ultima in ordine di tempo, ha portato all’uccisione di 500 combattenti islamici, secondo fonti militari egiziane non verificabili da media indipendenti (secondo gli analisti di Jane’s Defence, che citano fonti israeliane, i combattenti islamisti nel Sinai non sono più di mille). L’uso indiscriminato della violenza da parte dell’esercito rischia però di spingere molti residenti a unirsi ad Ansar Bayt al Maqdis, l’ala egiziana dello Stato islamico. E’ già successo con le comunità beduine più povere, che oggi compongono buona parte dei ranghi del gruppo armato, finora militarmente meno efficace rispetto a quelli attivi in Siria e Iraq. “L’esercito fa progressi ma deve stare attento a conquistare i cuori e le menti dei residenti”, spiega Aclimandos. “Se si vuole prestare maggiore attenzione all’incolumità dei civili allora bisogna mettere in conto che sradicare i jihadisti impiegherà molto tempo”. Lo scorso primo luglio lo Stato islamico aveva conquistato per un breve periodo Sheikh Zuweid, la seconda città del Sinai settentrionale, liberata solo grazie ai bombardamenti dell’aeronautica egiziana. “Già quell’episodio dimostrava che gli islamisti avevano impiegato tecniche di combattimento più evolute, probabilmente acquisite su altri campi di battaglia, come l’Iraq”, ha detto all’Economist Muhammad Gomaa, analista del centro di studi strategici al Ahram. Il successo mediatico derivato dall’abbattimento del volo russo nel Sinai potrebbe ora garantire alla frangia egiziana dello Stato islamico nuovi fondi e armi provenienti dal comando centrale siriano. “E’ evidente che qualcosa è andato storto nell’offensiva dell’esercito ma l’abbattimento dell’aereo russo non significa che lo Stato islamico abbia guadagnato terreno in Sinai”, dice Aclimandos. Intanto la minaccia terroristica nel Sinai ha già colpito l’industria del turismo, che nell’ultimo anno ha riportato perdite pari a 7,8 miliardi di dollari, il 40 per cento in meno rispetto all’ultimo anno di governo di Hosni Mubarak. “Ma nonostante le difficoltà economiche – conclude Aclimandos – il popolo egiziano continua ad avere fiducia nell’esercito”.
Cosa c'è in gioco