Storia di fede e massacri. Il peccato mortale di essere cristiani
“Nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 2014, dei pick-up muniti di altoparlante circolavano nei quartieri di Mosul annunciando un ultimatum e distribuendo un volantino in cui si leggeva: i cristiani devono convertirsi all’islam, pagare la tassa, lasciare la città senza prendere nulla con sé entro il mezzogiorno del giorno seguente. O saranno decapitati. ‘Fra voi e noi non ci sarà che la spada’, precisava il volantino. Il risultato? Sono partiti tutti”.
Louis Raphaël I Sako,
Patriarca di Babilonia dei caldei
E’ un genocidio, punto. Bisogna chiamare le cose con il loro nome”. Bashar Warda, vescovo caldeo di Erbil, Kurdistan, primo punto d’approdo per i cristiani e yazidi cacciati dalle loro case nella piana di Ninive, sfrattati dall’avanzare dell’orda nera del Califfato islamico, scandisce e ripete ogni volta che può quella parola che imbarazza gli storici e pure tanti uomini di chiesa. Definizione controversa, quella di genocidio, basti pensare all’eterna disputa su quel che accadde nell’Impero ottomano in via di disfacimento un secolo fa, quando gli armeni furono condotti a tappe forzate da un capo all’altro dell’Anatolia, con i turchi che ancora oggi negano tutto e parlano di semplici “trasferimenti”. Per Warda “ci sono tutti gli elementi, gli eventi, le storie e le esperienze che soddisfano la definizione di genocidio”, e solo usando la corretta definizione “queste esperienze non saranno dimenticate, i sacrifici di questa gente non saranno dimenticati. Non si aspettino altri vent’anni per guardarsi indietro e dire ‘mi dispiace se non abbiamo fatto qualcosa di veramente decisivo’”, prosegue citando implicitamente la vergogna di Srebrenica e delle sue fosse comuni. Il patriarca di Baghdad, mar Louis Raphaël I Sako, nel suo ultimo libro “Più forti del terrore” (Emi), aveva chiarito perché a suo giudizio è corretto parlare di genocidio: “Se si confrontano gli avvenimenti passati con ciò che accade oggi, è l’ampiezza del dramma che cambia. Decine di migliaia di cristiani sono stati scacciati dalla piana di Ninive in un colpo solo. Nelle guerre precedenti, alcuni individui erano uccisi, oggi tutta la popolazione è colpita”. Questo, aggiungeva Sako, “è un attacco di massa il cui scopo è di far partire tutti i cristiani. Qui si può veramente parlare di epurazione religiosa e addirittura di genocidio”.
Fare stime è difficile, i numeri ballano e i censimenti non sono sempre possibili, data la situazione sul terreno sconvolto da anni di guerre e tensioni etniche e religiose. Quel che si può dire, è che rispetto a un paio d’anni fa il numero di paesi dove la persecuzione nei confronti dei cristiani è considerata estrema (cioè a livello massimo) è passato da sei a dieci, ha scritto di recente in un rapporto la Fondazione di diritto pontificio Aiuto alla chiesa che soffre. A Cina, Eritrea, Iran, Arabia Saudita, Pakistan e Corea del nord si sono infatti aggiunti Iraq, Nigeria, Sudan e Siria. Certo, a Pechino le croci vengono rimosse dalle chiese perché considerate “troppo vistose”; i cristiani non allineati ai vescovi di nomina governativa pregano nella clandestinità, come i loro precursori duemila anni fa nelle catacombe. Nell’ultimo anno, nel solo Zhejiang, il restyling delle chiese (che è nient’altro che la rimozione della croce) ha coinvolto 425 edifici. “Ci sono troppe croci”, ha detto il segretario locale del Partito, preoccupato dalla poca armonia nello skyline cittadino. “La croce è il simbolo della nostra fede. Rimuovendo le croci, le autorità insultano la nostra fede, violano i nostri diritti che pure sono garantiti dalla Costituzione cinese”, diceva qualche tempo fa il cardinale Joseph Zen Ze-kiun, arcivescovo emerito di Hong Kong. “All’inizio pensavo che la campagna derivasse da una decisione del governo locale. Poi sono giunto alla conclusione che la linea è quella dello Stato centrale. Ciò è una terribile regressione della politica religiosa” della Cina, chiosava.
Dal rapporto, però, balza subito all’occhio che “le nuove entrate sono tutte segnate dall’ascesa dell’estremismo islamico, che si conferma come una delle principali minacce alla comunità cristiana”. Emblematico è il caso dell’Iraq, dove le case dei cristiani sono state marchiate con la “N” di nazareno. Qui oltre centoventimila cristiani sono stati obbligati a scegliere se convertirsi o morire passati per la spada dei jihadisti. Le immagini diffuse nei mesi scorsi dai network del Califfato hanno testimoniato il ritorno delle enclave di dhimmi, dove i non musulmani tollerati sono chiamati a firmare contratti e a pagare tasse per aver salva la vita, a patto di non suonare le campane e di non costruire nuove chiese. In Nigeria, nella sola diocesi di Maiduguri centomila cristiani sono stati costretti alla fuga nell’ultimo biennio. Trecentocinquanta le chiese distrutte, date alle fiamme o rase al suolo. E’ di martedì sera l’ultimo attacco per mano di Boko Haram, a Yola, capitale dello stato di Adamawa, nel martoriato nord-est del paese. Quarantanove morti secondo gli ultimi bollettini della Croce Rossa (in continuo aggiornamento), cento feriti, dopo che un attentatore suicida si è fatto esplodere in una stazione di servizio, vicino a un mercato di frutta e verdura. L’arcivescovo di Jos, mons. Ignatius Kaigama, presidente della Conferenza episcopale nigeriana, diceva la scorsa estate che per i combattenti di Boko Haram “la vita è niente; non gli importa nulla della loro vita: è inutile. Prendono, però, altre vite, questo è il problema. Vanno in chiesa, vanno al ristorante, vanno al mercato, vanno a scuola e mettono le bombe. Ciò significa che la loro filosofia di vita è irrazionale”. Il cardinale John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, chiedeva anche l’uso delle armi per proteggere il popolo. Il governo “finora ha fatto poco. Ora dicono che lo faranno. Ci spero, ma sono un po’ scettico. A ogni modo, non basta condannare Boko Haram, perché che cosa insegna l’islam nelle sue scuole in Nigeria? A non rispettare le altre religioni. Se questo è il discorso normale, se i bambini crescono così, poi è chiaro che si crea un terreno fertile per l’emergere di Boko Haram o dell’Isis o di al Qaida”.
Davanti all’inferno sulla terra, tra i cadaveri bruciati che riempiono le strade, rimane la speranza che solo la fede può dare. Può sembrare paradossale, ma tutte le testimonianze dai luoghi della persecuzione narrano di una fede che si fa sempre più forte, nonché di una volontà ferma e sempre più convinta di rimanere nelle proprie terre, se necessario fino al martirio. “Nella mia diocesi di Aleppo, nel nord della Siria, siamo sulla linea del fronte di questa sofferenza. La mia cattedrale è stata bombardata sei volte e ora è inagibile. La mia casa è stata colpita più di dieci volte. Stiamo affrontando la furia di un jihad estremista. Potremmo scomparire presto”, ha scritto Jean-Clément Jeanbart, arcivescovo greco-melkita di Aleppo. Noi, aggiungeva, “siamo il primo obiettivo della campagna di pulizia religiosa del cosiddetto Califfato. Veniamo massacrati quotidianamente e anche altri cristiani subiscono lo stesso trattamento”.
[**Video_box_2**]I mesi tra il 2013 e il 2015 sono stati catastrofici per i cristiani in diverse regioni del mondo. Non sono gli unici ad aver sofferto, certo. Ma tutti i dati mostrano come essi siano stati quelli più colpiti rispetto ai fedeli di altre religioni. L’International Society for Human Rights, con base a Francoforte, già nel 2012 sosteneva che l’ottanta per cento di tutti gli attacchi di discriminazione religiosa aveva come bersaglio proprio i cristiani. L’Unione europea – non certo entità d’emanazione pontificia – aggiustava la cifra, ma neanche più di tanto: settantacinque per cento. David Brooks, sul New York Times di martedì scorso, snocciolava qualche numero per dare l’idea del massacro silenzioso e spesso tollerato: “Nel novembre del 2014, prendendo un mese a caso, ci sono stati 664 attacchi jihadisti in quattordici paesi, che hanno causato la morte di 5.042 persone. Dal 1984 – aggiungeva Brooks – si stima che un milione e mezzo di cristiani sia stato ucciso dalle milizie islamiste in Sudan”. Una mappa del terrore che già un anno e mezzo fa, a Pasqua, aveva fatto dire al premier britannico David Cameron che “la cristianità è oggi la religione più perseguitata nel mondo”.