Così Israele è diventata l'unica realtà mediorientale in cui i fedeli a Cristo sono quadruplicati
Roma. Secondo il Central Bureau of Statistics di Gerusalemme erano 158 mila i cristiani in Israele nel 2012. Alla fine del 2014 erano 163 mila, cinquemila in più. Non saranno numeri memorabili, a fronte del milione e mezzo di loro correligionari fuggiti dall’Iraq e dalla Siria per scampare allo sterminio islamista, ma proprio per l’aria avvelenata che tira in tutta la regione verso i cristiani, il dato assume una dimensione notevole. In Israele, ha rivendicato il premier Benjamin Netanyahu durante la sua visita a Washington il 10 novembre scorso, c’è “l’unica comunità cristiana di tutto il medio oriente che cresce e prospera anziché ridursi e essere decimata”. Attualmente i cristiani rappresentano il 2 per cento della popolazione dello stato ebraico. Ottanta su cento sono arabi, gli altri provengono per lo più dall’ex Unione sovietica. Il 45 per cento di loro è cattolico, il 40 ortodosso, il restante 15 ha varie denominazioni. Ma soprattutto, dal 1948 a oggi il loro numero totale è più che quadruplicato.
Certo non mancano neanche qui motivi di ansia. Come ha spiegato il custode di Terra Santa, Pierbattista Pizzaballa, durante un incontro sullo “state of Christianity” organizzato un paio d’anni fa dall’ufficio stampa del governo, alcuni cristiani si sentono ancora discriminati dalla società israeliana perché, pur vantando un livello di istruzione mediamente elevato, faticano a trovare posti di lavoro all’altezza. Hanno relazioni non sempre facili con i vicini, essendo troppo cristiani per gli arabi e troppo arabi per gli ebrei. Per lo stesso motivo subiscono frequenti restrizioni temporanee delle libertà, soprattutto di movimento, per via delle misure antiterrorismo che possono spuntare senza preavviso sconvolgendo parecchie abitudini. Poi ci sono gli attacchi vandalici compiuti contro chiese e luoghi santi dei cristiani dai fondamentalisti ebrei. L’ultimo di un certo rilievo è avvenuto a giugno: la chiesa della Moltiplicazione dei pani e dei pesci a Tabgha, sul lago di Tiberiade, è stata distrutta dalle fiamme. I presunti responsabili sono stati comunque individuati dalle autorità.
E’ innegabile però che nella regione ormai solo Israele riesce nei fatti a offrire ai cristiani un buon grado di libertà religiosa, stato di diritto e sicurezza. A parte il dato demografico, che è già un giudizio sulla loro condizione di vita, i cristiani hanno incassato ripetutamente da Netanyahu esplicite garanzie di protezione. Il premier ha preso l’abitudine di inviare per Natale un videomessaggio di auguri rivolto ai cristiani di tutto il mondo, invitandoli a visitare Israele, condannando la persecuzione dei loro fratelli in medio oriente e ribadendo il proprio impegno a difenderli con ogni mezzo. Lo stesso fatto che possano spingersi a esprimere proteste e recriminazioni sui giornali e davanti alle autorità è tutt’altro che scontato nel panorama mediorientale. La recente battaglia per il ripristino dei fondi pubblici ritirati alle sole scuole private cristiane (e non a quelle ebraiche) ha raggiunto livelli di scontro inimmaginabili altrove. A settembre gli istituti coinvolti sono rimasti chiusi per protesta ben tre settimane di fila prima di ottenere dal ministero la promessa di una (parziale) compensazione dei tagli.
[**Video_box_2**]Ma oltre a una prova di pluralismo, da parte israeliana c’è un preciso interesse all’integrazione dei cristiani. Da mesi Netanyahu porta avanti una intensa campagna per l’arruolamento nell’esercito fra i giovani cristiani, tradizionalmente ostili all’idea di servire in armi lo stato ebraico. E poco più di anno fa è arrivata la legge che riconosce a circa duecento famiglie cristiane il diritto di indicare sui documenti la propria nazionalità aramea. L’intento è iniziare a scalfire lo storico intreccio identitario arabo-cristiano. Israele li vuole liberi di essere cristiani e orgogliosi di dirsi israeliani.