Le faglie religiose e imperiali che spappolano il fronte anti Isis
Milano. I media russi hanno trasmesso e ritrasmesso le immagini del regalo che Vladimir Putin, capo del Cremlino, ha portato lunedì a Teheran alla Guida suprema della Repubblica islamica d’Iran, Ali Khamenei, in occasione del loro primo incontro ufficiale dal 2007: il più antico manoscritto del Corano conservato in Russia. Si tratta di una delle preziosissime copie del primo Corano, riprodotto a San Pietroburgo centodieci anni fa – “quite a gift”, hanno sentenziato gli esperti americani, commentando l’interesse e la meraviglia con cui Khamenei ha accolto e rimirato il dono putiniano. I media siriani pro regime hanno celebrato l’incontro, ribatezzandolo “il vertice dei titani”: i due principali sponsor del regime di Bashar el Assad sorridenti e collaborativi sono un’assicurazione sulla vita per Damasco, forse non eterna, ma il breve periodo, per un sopravvissuto come Assad, può rivelarsi decisivo.
Se i simboli contano ancora qualcosa, in questo mondo scandito da alleanze scellerate, l’antico Corano rappresenta il suggello a un patto tra Mosca e Teheran che peserà sul futuro assetto del medio oriente. Mentre il presidente francese, François Hollande, si reinventa diplomatico globetrotter e prova a creare una grande coalizione anti Stato islamico sullo spirito di “Je suis Paris”, i turchi, membri della Nato, abbattono un jet russo sconfinato nel loro territorio (così dicono) dalla Siria, rimettendo in discussione i piccoli, fragili passi fatti in questi giorni per creare un’alleanza allargata. Se lo Stato islamico va combattuto sul terreno, se l’obiettivo ultimo, superiore – superiore persino alle vicissitudini criminali del rais siriano Assad – è quello della “distruzione” del Califfato, le parti in campo devono essere unite. Ma non lo sono. Mosca e Teheran hanno un piano; la coalizione a guida americana, con i paesi sunniti, con i turchi e con i sauditi, ne ha un altro. E la divergenza non riguarda semplicemente il futuro di Assad.
Gli esperti si interrogano da tempo se il rapporto tra russi e iraniani sia idilliaco come vogliono vendercelo, o se invece non sia piuttosto in corso una competizione per garantirsi un posto di rilievo quando e se la minaccia dello Stato islamico potrà definirsi contenuta. Il Financial Times ha rilanciato la definizione di “frenemies” per descrivere l’alleanza a breve termine tra Iran e Russia, laddove gli obiettivi di lungo termine divergono. La settimana scorsa, il ciarliero vicepremier russo Dmitry Rogozin ha detto in televisione: “Non si può dire con esattezza se tutte le forze politiche in Iran condividono l’idea che la Russia diventi un partner strategico di Teheran. Dobbiamo ancora lavorarci molto”. Decifrare la leadership iraniana non è facile nemmeno per i russi, così si accavallano le interpretazioni secondo cui esiste una frattura tra i due paesi nella visione a lungo termine, nella quale l’occidente è pronto a infilarsi. Si fa spesso riferimento ad Assad, il punto di caduta di ogni alleanza: in realtà, il rais siriano non è così rilevante per comprendere la natura del rapporto tra Teheran e Mosca. L’occidente ha deciso di accantonare i crimini commessi dal rais siriano in nome di una coalizione larga ed eterogenea contro lo Stato islamico: uniamoci e combattiamo, poi si vedrà. E’ sconfortante, certo, vedere Assad che si erge come baluardo contro il Califfato (e che dice che i francesi se lo sono cercato, l’attentato di Parigi, con la loro politica in medio oriente: politica fin dall’inizio, prima dei bombardamenti allo Stato islamico, a favore degli oppositori del regime di Assad), ma se questo è il prezzo per un’offensiva con qualche possibilità di successo, l’occidente si dimostra pronto a pagarlo. Il futuro di Assad non è garantito, ovvio: circolano voci sul fatto che i russi abbiano un piano alternativo per la leadership a Damasco (sarebbe interessante ascoltarlo: per ora piani alternativi ad Assad li abbiamo visti solo nella serie tv “Homeland”, e non funzionano nemmeno lì), ma il presupposto è sempre che sarà il popolo siriano a decidere – chissà quando, chissà come.
[**Video_box_2**]La visione iraniana del conflitto in medio oriente non è difficile da interpretare, nonostante l’accordo sul nucleare abbia tappato occhi e orecchie a buona parte della diplomazia occidentale e nonostante il realismo imperante abbia convinto molti che la stabilizzazione della Russia sia indispensabile ancorché efficace. Il capo delle Guardie della rivoluzione, il generale Mohammad Ali Jafari, ha detto non più tardi di venerdì scorso (e non è nemmeno la prima volta) parlando a un parterre di basiji: “Uno dei risultati ottenuti dai basiji è stato quello di mettere insieme le forze popolari dei difensori della Rivoluzione in Iran, Siria, Iraq e Yemen. Tutte queste forze sono unite. E questo significa la formazione di un’unica nazione islamica”. Questa unione, “se Dio vorrà, continuerà fino all’arrivo” del Dodicesimo imam, atteso dai musulmani sciiti. Il vice di Jafari, il generale Massoud Jazayeri, ha confermato le parole del suo capo parlando al network russo Sputnik News, e ha aggiunto: “I dati e le rilevazioni sul campo mostrano che l’azione della Russia in Siria contro i terroristi islamici è molto buona, e l’impatto è considerevole. In queste condizioni, la cooperazione tra Iran e Russia contro il terrorismo nella regione è buona, ci vuole pazienza perché Iran e Russia abbiano successo”.
La supernazione sciita a guida iraniana non può essere accettata dai paesi sunniti, da quei turchi e da quei sauditi che partecipano assieme agli Stati Uniti alla guerra allo Stato islamico. Anzi, non soltanto è indigeribile, è da attaccare prima che diventi realtà. Putin triangola tra le varie forze, fornendo linee di credito pressoché infinite agli egiziani e telefonando al re saudita per invitarlo al tavolo del negoziato siriano a Vienna – tavolo che si sta affollando sempre più e che sta diventando del tutto irrilevante. Poi si lascia corteggiare dagli americani e dai francesi per farsi rimborsare di questo costosissimo anno e più di isolamento. Ma Putin è complice attivo – fornisce armi e fornisce finanziamenti e fornisce uranio – della creazione di un grande stato sciita dall’Afghanistan al Libano passando per lo Yemen, nemico del blocco sunnita che vuole arginare l’avanzata di Teheran. Hollande e Barack Obama provano a trovare una sintesi per risolvere il problema più urgente, i turchi abbattono un jet russo: è un avvertimento.