Il pol. corr. universitario ora vuole la testa del progressista Wilson
New York. Alcune settimane fa la Black Justice League, un’associazione di studenti afroamericani di Princeton, è scesa nelle strade del campus per unirsi alla grande battaglia contro il razzismo. Gli studenti vogliono introdurre corsi obbligatori sulle minoranze oppresse e chiedono ai vertici universitari i famosi “safe space”, gli spazi dove i gruppi ad alto rischio di discriminazione possono sentirsi al sicuro e liberi di esprimersi. Fin qui nulla di diverso da quello sta succedendo in centinaia di università americane. Il rettore dell’Università del Missouri è stato costretto a dimettersi perché, dicono i suoi critici, non ha fatto abbastanza per contrastare il razzismo. Ma gli studenti di Princeton hanno nel mirino una preda più grossa perfino del rettore: Woodrow Wilson. Prima di arrivare alla Casa Bianca nel 1913, Wilson è stato presidente dell’università, e l’ha resa un’istituzione fiorente e cosmopolita per i suoi tempi, togliendo quella patina di elitismo presbiteriano che l’aveva resa una nicchia particolarmente monocolore fra le altre nicchie dell’Ivy League. Questo leader progressista risciacquato in grandi ideali umanistici aveva l’ambizione di trasformare “ragazzi spensierati in uomini pensanti”, ed è appena ovvio che la sua figura torreggi sul campus, riverita come quella di un padre fondatore. Wilson dà il nome alla prestigiosa scuola di politica e relazioni internazionali e il campus è punteggiato di ritratti, busti e targhe a lui dedicate. La Black Justice League chiede che tutto questo apparato iconografico scompaia, che le onorificenze vengano rimosse e i ritratti cancellati, perché Wilson era un razzista. Un sostenitore della supremazia bianca, un tifoso della segregazione. Un impresentabile che merita l’oblio.
I continui sit in degli studenti di fronte all’ufficio del presidente, Chris Eisgruber – interrotti giusto dai festeggiamenti del Ringraziamento, circostanza che fa imbestialire i nativi americani che cercano “safe space”, ma questa è un’altra storia – sono un bel grattacapo per l’istituzione, che sta valutando come procedere, ma il pensiero mainstream liberal non ha dubbi: i simboli che esaltano quella canaglia razzista di Wilson vanno eliminati. Il New York Times si è buttato sulla protesta, ricordando che Wilson “era un segregazionista che ha riempito la sua amministrazione di segregazionisti”. La sentenza è questa: “Il peso schiacciante delle prove impone di togliere gli onori che l’università ha concesso decenni fa a un razzista impenitente”. Razzista impenitente: strano destino per uno che per primo ha nominato un cattolico nel corpo docenti e un ebreo alla Corte Suprema. Wilson era favorevole alla segregazione ma, come tutti i progressisti del suo tempo, sosteneva che era un modo per proteggere i neri dalle aggressioni dei bianchi. Nell’esercito ha sostenuto la politica di divisione fra bianchi e neri all’interno dei ranghi, ma per primo ha concesso agli afroamericani lo stesso salario dei bianchi. “Se Wilson deve essere obliterato da Princeton per le sue idee sulla razza sono offensive, allora cosa dobbiamo fare con George Washington, Thomas Jefferson, James Madison, James Monroe e Andrew Jackson, che erano tutti proprietari di schiavi?”, si chiede il professore di legge Geoffrey Stone. In fondo la colpa contestata a Wilson è di essere un uomo del suo tempo. Era immerso nella mentalità a lui contemporanea, e per quello standard è stato un eroe del progressismo. Per lo standard odierno un razzista, un hater. Ora lo vogliono rottamare, e a farlo sono studenti universitari, abitanti delle aule dove un tempo si insegnava a ragionare in prospettiva storica.
L'editoriale dell'elefantino