Clima di guerra a Parigi
Il mediatore Obama rassicura Erdogan e invoca il nemico comune
New York. Con l’incontro di Parigi, durante la Conferenza in cui le cose importanti succedono a margine, Barack Obama ha fatto un passo verso Recep Tayyip Erdogan. Un passo simbolico e retorico che non cambia la sostanza della missione obamiana in questo frangente, gettare acqua sul fuoco fra Russia e Turchia per tornare a occuparsi del nemico prioritario, lo Stato islamico, ma va oltre la sorvegliatissima posizione articolata dal dipartimento di stato alla vigilia degli incontri con le parti in causa. Foggy Bottom non era andata oltre l’ammissione della violazione dello spazio da parte del Su-24 russo. Obama ha difeso “il diritto della Turchia a difendere se stessa e il suo spazio aereo” mentre il segretario generale della Nato, James Stoltenberg, benediceva a nome dell’alleanza la decisione dei turchi di non presentare a Mosca alcuna scusa per l’abbattimento del jet al confine con la Siria, come richiesto da Vladimir Putin.
Dopo l’incontro, Obama ha invitato a concentrarsi sul “nemico comune”, cosa che si fa anche chiudendo le “falle” sul confine turco sfruttate dallo Stato islamico, e ha detto che spera di “accelerare i contatti a livello militare” con la Turchia per contribuire alla risoluzione della crisi siriana. Ad alzare la tensione ci ha pensato un’esplosione nella serata di martedì nella metropolitana di Istanbul, nei pressi della stazione di Bayrampasa, uno dei punti del sistema di trasporto in cui le rotaie affiorano in superficie. Bayrampasa si trova nel settore europeo della città. Il sindaco di Istanbul, Kadir Topbas, ha confermato che si è trattato di una bomba.
Le prime ricostruzioni, confermate dalle autorità locali, dicono che si trattava di una “pipe bomb” artigianale. I media locali parlano di almeno cinque feriti. Erdogan ha incassato le rassicurazioni dell’alleato americano e in conferenza stampa si è attenuto al registro conciliante promosso da Obama nella trasferta parigina: “Stiamo cercando soluzioni diplomatiche, vogliamo evitare tensioni”, ha detto, per risolvere una crisi che “danneggia entrambi i paesi”, mitigando così lo scambio di accuse a distanza con Putin sui traffici di petrolio con lo Stato islamico, che vedrebbero, secondo il Cremlino, anche il coinvolgimento del figlio del presidente turco.
Da Obama, Erdogan ha anche ottenuto una presa di posizione netta sull’impegno intermittente e selettivo, più agitato a parole che praticato, della Russia contro lo Stato islamico. L’aviazione russa si concentra quasi esclusivamente sui gruppi di opposizione ad Assad. “Non mi aspetto di vedere un cambiamento di strategia della Russia nelle prossime settimane”, ha detto il presidente americano, che ha aggiunto: “Non dobbiamo illuderci che la Russia cominci a colpire soltanto obiettivi di Isis. Non sta succedendo. Non è mai successo. Non succederà nelle prossime settimane”.
Dalle parole di martedì sembra sempre più ampio il fossato che divide Washington e Mosca sul destino di Bashar el Assad: mantenerlo al potere è ancora l’obiettivo principale della Russia, secondo l’analisi americana, e la “shuttle diplomacy” di François Hollande non ha persuaso Putin a concentrare i suoi sforzi militari contro il Califfato. Il sogno di una coalizione “grande e unita” per sconfiggere il nemico è stato rimpiazzato da quello che un funzionario americano chiama con opportuno understatement “una specie di convergenza”.
E in questa specie di convergenza Obama, leader “from behind”, si trova nel ruolo di mediatore delle controversie interne, esercita le arti della pacificazione dei conflitti fra partner riottosi e lascia che siano altri a occuparsi della parte attiva del reclutamento degli alleati. Il primo ministro britannico, David Cameron, ha fissato per oggi il dibattito parlamentare su un’azione militare. Secondo Cameron c’è un “crescente sostegno” per un’azione che considera non soltanto moralmente giusta ma “fondamentale per la sicurezza nazionale”.
La difesa interna è anche la sottotrama delle operazioni diplomatiche di Obama. Come ha detto il consigliere Ben Rhodes, la priorità per la Casa Bianca rimane “affrontare la minaccia immediata del terrorismo per proteggere il popolo americano”, e in questa direzione va il provvedimento che aumenta i controlli per chi viaggia negli Stati Uniti con un passaporto europeo.
[**Video_box_2**]Uno studio pubblicato dalla George Washington University intitolato “Isis in America: from retweets to Raqqa” analizza i documenti legati a oltre quattrocento simpatizzanti americani dello Stato islamico, alla ricerca se non di un profilo preciso almeno di tratti comuni per orientare le operazioni antiterrorismo. Ma il profilo del terrorista americano avvinto dalle promesse del Califfato sembra introvabile: “Si va dal militante inflessibile alle teenager, dai criminali minori agli studenti del college”, dice Lorenzo Vidino, direttore del programma di ricerca sull’estremismo. Quest’anno l’Fbi ha arrestato 56 persone negli Stati Uniti legate a vario titolo a operazioni coordinate o ispirate dallo Stato islamico. Non erano mai stati arrestati tanti aspiranti terroristi in un solo anno dal 2001. Un altro segnale che sottolinea la necessità di Obama di concentrarsi innanzitutto sulla sicurezza interna.
I conservatori inglesi