Caro Renzi, ma intervieni o no?
Quando le persone dotate di autorità ufficiale, o addirittura di governo, fanno le sceme, è perché sono sceme. Prendiamo alcune delle frasi più in voga nel dibattito su un affaruccio come una guerra mondiale. Per esempio: “Non si può intervenire se non si ha chiaro che cosa si farà dopo”. La frase basta a eliminare dalla faccia della terra polizia, carabinieri, pompieri, protezione civile, medici del pronto soccorso, emigrati clandestini che si buttano nel fiume a salvare un cittadino italiano che sta annegando, e alcune altre categorie di persone di prima necessità. Stanno perfezionando la caccia agli ezidi, ce ne sono decine di migliaia in loro balia sulle pendici del monte Sinjar: intervieni, anche se non hai “una strategia chiara per il dopo”, o no? Per fortuna (tardi, e non abbastanza) gli aerei americani lo fecero, e poi i francesi, nell’estate del 2014. Kobane è occupata, gli ultimi resistenti curdi si battono eroicamente con armi impari: intervieni o no, anche se non c’è nessun progmamma chiaro per il dopo, e anzi tutto è confuso, i tuoi alleati turchi desiderando la sconfitta dei curdi e collaborando sotto sotto (nemmeno tanto) con l’Isis, eccetera? Per fortuna (tardi, e appena abbastanza) gli aerei americani lo fecero, e i curdi ripresero Kobane, cioè le sue ceneri. Il governo siriano di Bashar el Assad fa strage e storpia di torture i suoi sudditi nel 2011, nel 2012, nel 2013, nel 2014, nel 2015: intervieni, anche se eccetera? Non sono intervenuti, né americani, né europei, fino a far ammontare la cifra dei morti ammazzati (nella gran maggioranza dagli aerei e dai barili-bomba governativi) a quasi 250 mila. In effetti, non avevi una “strategia per il dopo”. E tanto meno ce l’avevi, quanto più non intervenivi. E dal lato dei ribelli i fanatici e i terroristi prendevano com’era inevitabile sempre più il sopravvento sui democratici e i moderati e gli aspiranti a un regime normale. L’Isis cancellò spettacolarmente il confine fra Siria e Iraq, e sbandierò la sua conquista facendo andare su e giù attraverso la frontiera abolita i suoi seguaci entusiasti che suonavano il clacson in quell’anticipo di califfato universale. Intervieni o no? E se intervieni devi continuare a rispettare la rispettiva sovranità territoriale di Siria e Iraq anche quando non esistono più e il tuo nemico va di là e di qua cento volte al giorno come l’accenditore e lo spegnitore del lampione sull’asteroide del piccolo principe? Meraviglioso: c’è voluto un anno e mezzo a far votare al Parlamento inglese l’autorizzazione a sconfinare in quella terra senza confine, e il Parlamento inglese resta in anticipo sugli altri.
Potrei continuare a lungo, a proposito dei frutti temuti dell’interventismo messi a fronte di quelli avvenuti dell’omissione. Ma chiediamoci un momento, giusto il tempo di una digressione, perché mai “non avevamo una strategia per il dopo”. Perché mai non sapevamo fare altro che proclamare l’intangibilità di stati il cui collasso era inevitabile, e non faceva che compiere a distanza di un secolo la dissoluzione di una fabbrica artificiosa e durata oltre le speranze, al costo che sappiamo? Non era abbastanza strategico immaginare per quella grande regione tormentata e tormentosa un disegno ovvio e grandioso come quello che qualcuno aveva saputo immaginare per l’Europa del Dopoguerra, uscita da orrori e tormenti ancora più rovinosi? Non era abbastanza strategico adoperarsi per stroncare una violenza oltraggiosa e insieme proporre ai popoli e ai loro faticosi rappresentanti un futuro di tolleranza, convivenza e comunanza di risorse? Utopia? Certo: non più di quanto fosse utopica l’idea di un’Europa oltre gli stati-nazione e le ideologie totalitarie del Novecento. Non bisognava provarci, almeno? Non bisognerebbe ancora? Fino a quel punto, si trattava non di subire e muovere guerra, ma di intervenire a difesa di moltitudini colpite con una ferocia genocida e terroristica, come deve intervenire una polizia, un reparto di pompieri, un plotone di difensori del patrimonio dell’umanità. E che dire di quella sapientia inerzia in nome della “inadeguatezza di una strategia chiara” da parte di potenti e mezzi-potenti che ha fatto loro immaginare di essere soli al mondo, e li ha lasciati desolatamente spiazzati quando in quello che trattavano come un loro campetto da gioco, nel quale lasciare che si ammazzassero le molteplici bande concorrenti – e soprattutto che ammazzassero la gente – è arrivata la Russia e ha messo i piedi e le mani e tutto il resto nel piatto, ammonendo: ragazzini, lasciatemi lavorare! Gran bella strategia in mancanza di strategia, una coalizione universale sovieto-sciita.
[**Video_box_2**]Per molto tempo – un tempo immemorabile, per chi lo viveva come un topo in trappola, sotto le bombe spietate del tiranno di Damasco e sotto i coltelli da macelleria della schiuma jihadista, o nelle tende degli accampamenti di sfortuna – qualche voce si è unita a quella dei topi e degli attendati e dei vescovi indigeni a chiedere soccorso. Quelle voci non erano solo di pianto e di umiliazione: erano lucide, vedevano attraverso le feritoie. Avevano una strategia. Sapevano che il mondo dell’omissione – chiamerò così l’occidente, per gli anni 2011-2015 – si stava tirando addosso i milioni di fuggiaschi e gli attentati degli ubriachi di morte. Lo hanno detto. Io l’ho detto tante volte, sul giornale che mi ha generosamente ospitato e sul quale non scrivo più, e anche su questo giornale. Posso documentarlo, anno per anno, mese per mese. I potenti e i mezzi-potenti della terra, quelli della strategia, sono imbecilli, lo dico senza rancore, quasi con compassione, a vederli arrancare. A vederli costretti a chiamare guerra una cosa che poteva e doveva essere fermata come si ferma una sfida criminale. Qualcuno si trincera dietro l’islam, a sostenere che si tratta di altra cosa rispetto a ogni precedente storico, anche quelli atroci di Auschwitz e del gulag: certo che si tratta di altra cosa. E’ sempre un’altra cosa. Così, dopo aver lasciato la cosa crescere per cinque anni – ogni anno di queste violenze ne vale quattordici di quelli normali, il doppio di quelli dei nostri cani – ora si dividono fra chi si rassegna alla guerra, e chi vi si oppone: non a fare quello che si deve qui e oggi, in Iraq e in Siria (e in Libia e Yemen e Nigeria e Mali…) e nella Siria e nell’Iraq che l’Europa sta diventando, ma “alla guerra”, o “alla pace”, questione risolta una volta per tutte. (Per non parlare degli entusiasti della guerra, quelli che “andrei a combattere” – guarda che si può, eh? – e votavano contro l’invio di qualche istruttore e qualche fucile di seconda mano ai curdi). Si ammonisce: “Ma in Libia…”. In Libia si intervenne quando Gheddafi era già spacciato, e avrebbe potuto forse durare alla maniera in cui è durato Bashar a Damasco. Si intervenne quando era in pericolo mortale Bengasi, e all’indomani non era detto che si dovesse lasciare il seguito alla guerra per bande. Oggi si dice “Ma in Libia…” per tenersi alla larga dalla Siria – un sesto anno… – come se la Siria corresse il rischio di essere resa “instabile”… Il nostro presidente del Consiglio ha deciso di scommettere sul tenersi fuori – mezzo fuori mezzo dentro, cioè: se la va, viva il sacro egoismo, se la spacca, c’è sempre il tempo di prendere posizione. Il sacro egoismo europeo si è chiamato in casa i milioni di siriani e iracheni (hanno aspettato fin troppo), ha creduto di esorcizzare lo spontaneismo del terrore, ha comprato la complicità di Erdogan al prezzo del denaro e della propria connivenza, ha magnificato Putin, il lungo protettore dell’infamia di Bashar. Ora Renzi pronuncia la battuta su “noi, che non rincorriamo le bombe altrui”, che suona come un’irrisione alla Francia colpita che chiede solidarietà. Dio ce la mandi buona. Agli altri, l’ha già mandata cattiva, cattivissima.