Perché negare la radice ideologica del terrorismo è un assist per le Le Pen
Vincerà davvero il partito delle Le Pen, un giorno, se continueremo a raccontarci frottole sul terrorismo e se continueremo a coccolare le nostre coscienze facendo finta che in fondo è tutto sotto controllo, perché il fondamentalismo, si sa, è solo una creatura dell’occidente, perché i terroristi agiscono sulla spinta di un qualcosa legato più alle nostre vite che alle loro vite e in fondo, e perché, come ogni forma di azione che nasce come reazione ad un’altra azione, è sufficiente bloccare le nostre azioni per disinnescare la bomba del fondamentalismo islamico.
Da questo punto di vista la ricetta del progressista collettivo è semplice e lineare: il terrorismo va condannato senza se e senza ma, ovvio, ma una volta asciugate le lacrime, senza se e senza ma, bisogna ammettere che forse qualche se e qualche ma esistono. Perché lo Stato islamico, signora mia, è nato come una reazione all’intervento dell’occidente in Iraq, ai cambiamenti climatici, alla ghettizzazione degli immigrati, a un grave disagio sociale, a uno stato di povertà assoluta, al terrorismo di Israele e a una progressiva diffidenza dell’occidente nei confronti dell’islam. Ci sarebbe da sorridere di fronte alle Naomi Klein che con tono solenne sostengono che “il collegamento tra innalzamento delle temperature e il ciclo delle violenze in Siria è ormai inconfutabile”. E ci sarebbe da sorridere di fronte ai campioni del politicamente corretto che non si accorgono che (a) l’autore della strage di San Bernardino, parola del padre di Rizwan Farook, “guadagnava 70 mila euro l’anno, più 20 mila di straordinari, faceva un master per guadagnare di più e aveva studiato ingegneria ambientale”; (b) la kamikaze che si è fatta esplodere durante il blitz della polizia a Saint-Denis dopo la strage del Bataclan, Hasna Aitboulahcen, era un’imprenditrice con alle spalle ottime scuole; e (c) che la mente del 13 novembre, Abdelhamid Abaaoud era un rampollo della ricca borghesia musulmana. Ci sarebbe da sorridere di gusto se non fosse che gli uomini e le donne uccisi in nome di dio ci lasciano purtroppo appena il tempo di piangere. E se non fosse che l’istinto forse naturale e consolatorio di scaricare su noi stessi le responsabilità del Male ci impedisce di capire le ragioni per cui il Male punta il mirino sulle gole dell’occidente. Spiace per la signora Terzani, per la signora No Logo, per i replicanti del bergoglismo, ma qui non c’entra la povertà, non c’entra il clima, non c’entra il colonialismo, non c’entrano le banlieue, non c’entra la xenofobia, non c’entra la siccità, non c’entra la disperazione ma c’entra solo una lucida ideologia. Un’ideologia alimentata dalla presenza di un simil stato che da Raqqa a Sirte incarna il modello di vita che l’Isis intende esportare al di fuori della sua effettiva area di operazioni e che può essere considerato pazzotico e senza senso ma che non fa altro che applicare alla lettera un modello di islam – non troppo diverso da quello wahabita sperimentato in Arabia Saudita – che Maometto provò a imporre con violenza alla Medina nel Settimo secolo dopo Cristo.
[**Video_box_2**]Il progressista collettivo ha ragione quando dice che i veri insegnamenti dell’islam portano alla pace. Ma se è vero che i cattivi maestri dell’islam, come sostengono gli analisti del Council on Foreign Relations, sono il 3 per cento dei musulmani conviene non tirar fuori la calcolatrice dal taschino e rendersi conto che il 3 per cento di 1,6 miliardi di musulmani del mondo coincide con 48 milioni di musulmani che per ragioni varie vogliono imporre la sharia ai miscredenti. Provare a consolarsi anche a costo di pensare di dover convivere con il Male è comprensibile. Ma fino a quando non capiremo che il terrorismo va studiato non nel suo contesto sociale ma nel suo contesto ideologico continueremo a raccontarci frottole, a regalare assist alle Le Pen e a non capire che se si vuole estirpare il Male fino alla sua radice la radice bisogna conoscerla, non semplicemente negarla.