“Siamo in guerra”
Faremo di più, dice il Pentagono. Ma c'è un guaio con le milizie sciite
Milano. Siamo in guerra contro lo Stato islamico e dobbiamo tutti fare di più per contrastare “gli assalti alla civiltà che noi difendiamo”, come quelli a Parigi e a San Bernardino, ha detto il segretario alla Difesa americano, Ash Carter, testimoniando di fronte alla commissione Forze armate del Senato. La Russia di Vladimir Putin ha lanciato missili con il sommergibile Rostov dal Mediterraneo, il capo del Cremlino si augura che “le armi nucleari non si rivelino necessarie”, mentre colpisce con forza Raqqa, “capitale” siriana del Califfato, ma, come ha ammesso Carter, lo Stato islamico “non è ancora stato contenuto”. “Faremo di più”, dobbiamo fare di più, ha detto il capo del Pentagono, ma non ci saranno “boots on the ground” e nemmeno l’incrollabile insistenza del senatore repubblicano John McCain – “vorrei sapere qual è la strategia”, “serve un surge in Siria” – è riuscita a definire l’escalation promessa da Carter. L’obiettivo della coalizione a guida americana è quello di rafforzare le truppe che già ci sono sul campo: le milizie sunnite, convocate a Riad nell’incontro organizzato dall’Arabia Saudita, pronta a tutto pur di evitare che siano le forze sciite a intestarsi l’eventuale vittoria contro lo Stato islamico; le milizie sciite che, “ci piaccia o no”, come ha detto Carter, contribuiscono in Iraq al contenimento dell’avanzata del Califfato: “Iran is in the game”. Gli Stati Uniti si augurano che le forze in campo si uniscano contro il nemico comune, che le divisioni secolari possano evaporare, ma gli esperti e i reporter descrivono una realtà in cui le milizie sciite combattono lo Stato islamico e tutte le altre forze che non dipendono dal loro stesso comando.
Quando lo Stato islamico è stato cacciato da Tikrit, la città natale di Saddam Hussein, “molti abitanti hanno scambiato per una liberazione quella che era una conquista”, ha detto l’esperto di jihad Michael Weiss, testimoniando al Congresso americano. La conquista è stata portata avanti dalle milizie sciite, e Human Rights Watch e Amnesty ne hanno documentato la violenza: saccheggi, pulizia etnica, case bruciate, esecuzioni sommarie, torture. Le vittime erano considerate “collaborazionisti”, cioè sunniti. A Ramadi, nell’Anbar iracheno, si sta per ripetere lo stesso schema. Il segretario alla Difesa Carter ha annunciato l’invio di elicotteri Apache e di consiglieri militari, mentre Reuters ha raccontato che, in attesa dell’assalto, i miliziani dello Stato islamico si organizzano per usare la popolazione – vessata, controllata, che mangia pane secco e pomodori marci – come scudi umani. Carter ha specificato che c’è massima disponibilità, però è necessaria una richiesta esplicita da parte di Baghdad. Ma come ha scritto Michael Knights, Lafer fellow del Washington Institute, “la questione della sovranità è molto delicata”. Quando la settimana scorsa Carter ha annunciato l’invio di militari per condurre operazioni speciali, liberare ostaggi e colpire leader dello Stato islamico, il premier iracheno, Haider al Abadi, che prende ordini dalla leadership iraniana, ha precisato: “Non abbiamo bisogno di soldati stranieri. Ogni sostegno di questo tipo così come ogni operazione speciale in Iraq deve essere approvato dal governo iracheno”. Le forze alleate dell’Iran che operano in Iraq – Badr, Kataib Hezbollah, Asaib Ahl al Haq e i seguaci di Moqtada al Sadr – minacciano gli americani da quando sono tornati nel paese per combattere lo Stato islamico (ci sono circa 3.500 militari americani in Iraq), e hanno detto che inizieranno a uccidere americani se usciranno dalle basi o forniranno armi e sostegno militare ai sunniti e ai curdi senza l’accordo del governo di Baghdad. Michael Knights spiega che “i gruppi sostenuti dall’Iran stanno cercando di rimpiazzare la coalizione a guida americana con quella formata da Russia e Iran. Ci sono stati molti tentativi, per ora falliti, di trasferire il comando delle operazioni dal Combined Joint Operations Centre (che sta con la coalizione a guida occidentale) verso un nuovo centro di condivisione di intelligence che comprende l’Iraq, le milizie sciite, la Russia, l’Iran, Hezbollah e il regime siriano di Bashar el Assad”.
[**Video_box_2**]“Iran is in the game” eccome, ma non è controllabile come e quanto Washington vorrebbe. Phillip Smyth, ricercatore all’Università del Maryland e grande esperto di milizie sciite, dice al Foglio che ci sono circa “100-150 milizie sciite, operano soprattutto vicino a Ramadi, partecipano alla battaglia in modo attivo e ripetono che gli Stati Uniti stanno cercando di tenerli fuori dalla mischia”. Come ha raccontato Liz Sly sul Washington Post la settimana scorsa, gran parte del sentimento anti americano – comprese le teorie secondo cui Washington collabora con lo Stato islamico – è veicolato dalle forze sciite. “Ideologicamente e politicamente – dice Smyth – le milizie sciite si oppongono agli Stati Uniti. Non vogliono forze occidentali sul campo, così come si oppongono a gruppi indipendenti, sostenuti dagli americani e fedeli al governo iracheno”. Confermando la brutalità delle milizie sciite nei confronti dei sunniti – “dicono che sono dello Stato islamico” – Smyth commenta l’audizione di Ash Carter dicendo che “gli Stati Uniti devono stare molto attenti su chi considerare partner in Iraq”. Le milizie sciite “promuovono la lotta settaria, e non collaborano nello sforzo di includere di nuovo i sunniti nella gestione del potere del governo iracheno”. C’è “un approccio cinico” alla guerra allo Stato islamico, dice Smyth, e le milizie sciite “vedono gli Stati Uniti come una minaccia ai loro interessi e a quelli regionali dell’Iran”. Washington cerca di coinvolgere la leadership iraniana, negoziando il trasferimento di materiale nucleare in Kazakistan per arrivare alla sospensione delle sanzioni e alla implementazione dell’accordo, ma sul campo iracheno la collaborazione resta volatile, se non pericolosa.
I conservatori inglesi