La strada dei foreign fighter italiani passa dall'Albania
"Sette anni fa non si vedevano in giro così tante donne con il velo e uomini con la barba lunga”, racconta Alfred Xhameta, seduto nel suo bar di Synej, una cittadina di seimila abitanti a un’ora di macchina da Tirana. Xhameta ha lasciato Synej per venire a lavorare in Italia nel 2008.
Tirana. Sette anni fa non si vedevano in giro così tante donne con il velo e uomini con la barba lunga”, racconta Alfred Xhameta, seduto nel suo bar di Synej, una cittadina di seimila abitanti a un’ora di macchina da Tirana. Xhameta ha lasciato Synej per venire a lavorare in Italia nel 2008. All’epoca, ricorda, in Albania era difficile distinguere un musulmano da un cristiano. Era un paese tiepido nei confronti della religione, dove si sentivano ancora le conseguenze di trent’anni di persecuzioni comuniste. Negli anni Sessanta, il dittatore Enver Hoxha aveva vietato ogni forma di religione e distrutto quasi tutti i luoghi di culto. Alla caduta del regime, i pochi sacerdoti che si riuscivano a trovare erano quelli cresciuti nelle scuole religiose create dal partito, che conoscevano meglio la dialettica marxista dei dogmi religiosi.
Quando nel 2012 Xhameta è ritornato in Albania ha trovato un paese cambiato. A Shijak, una cittadina a pochi chilometri da Synej, una fondazione del Kuwait ha costruito un centro culturale islamico. Intorno, diversi negozi hanno iniziato a servire solo cibi halal. Nel suo paese, Synej, una fondazione del Qatar ha costruito una nuova moschea, dove ogni giorno si ritrovano a pregare alcune decine di persone, le donne con il capo coperto e gli uomini con la lunga barba tipica dei musulmani più conservatori. Negli ultimi anni, sono comparse centinaia di moschee come questa in tutta l’Albania e nel vicino Kosovo. Vobarno, un paese di ottomila abitanti nelle valli a nord di Brescia, è molto diverso da Synej, ma anche qui una comunità sta riscoprendo le sue origini religiose. Nella zona, fondazioni egiziane, turche o dei paesi del Golfo hanno finanziato l’acquisto di villette, edifici o addirittura scantinati per creare luoghi di culto. I ragazzi che li frequentano hanno cambiato le proprie abitudini. Anas el Aboubi, uno studente della Scuola Bottega di Brescia, uno degli istituti tecnici più prestigiosi del nord Italia, dopo essersi convertito ha smesso di bere e di fumare. Anas è nato in Marocco, ma ha trascorso 14 dei suoi 23 anni a Vobarno. “Amo il tricolore, amo l’Italia”, dice in un documentario prodotto da Mtv nel 2012 sui giovani cantanti di origine straniera cresciuti in Italia. Anas era conosciuto nel bresciano con il suo nome da rapper, Mc Khalif e nel video parla delle sue canzoni, di Allah e delle difficoltà a integrarsi in Italia. Pochi mesi dopo aver partecipato al documentario, Anas ha abbracciato una forma ancora più severa della sua religione e ha deciso di smettere di cantare.
Ci sono molte correnti nell’islam radicale che vietano non solo la musica, ma anche la radio e la televisione. A Synej, Xhameta racconta che ogni tanto un gruppo di uomini con la barba lunga entra nel suo locale e gli chiede di spegnere la televisione, perché “haram”, cioè impura. “Gli dico di andarsene – racconta Xhameta – A casa mia si rispettano le mie regole”.
Uno di quegli uomini è Alban Elezi, un elettricista di 32 anni. Nel febbraio del 2015, Elezi è stato arrestato ed estradato in Italia con l’accusa di terrorismo internazionale. Secondo i magistrati italiani, Elezi faceva parte di una rete che aiutava giovani musulmani a raggiungere la Siria. Cinque tra i suoi familiari e i suoi amici più stretti si sono arruolati nello Stato islamico o hanno cercato di farlo. Il tribunale del riesame di Brescia lo ha liberato, sostenendo che non c’erano abbastanza prove per giustificare la custodia cautelare. Oggi Elezi, che tiene la barba lunga e non vuole parlare con i giornalisti, vive in una delle case più piccole di Synej. Uno dei ragazzi che, secondo la magistratura italiana, Elezi ha aiutato a raggiungere la Siria è Anas el Abboubi, il giovane rapper di Vobarno convertito all’islam radicale.
Anas è stato il primo foreign fighter di cui si è avuta notizia in Italia e il suo è considerato un caso esemplare di radicalizzazione, il processo che porta ad adottare un’ideologia religiosa o politica sempre più estrema. Come nel caso di molti altri giovani radicalizzati cresciuti in Italia, Anas si è indottrinato quasi esclusivamente su internet e ha avuto difficoltà a trovare i contatti necessari per arrivare in Siria. Durante il suo primo tentativo di raggiungere lo Stato islamico fu fermato a Durazzo dalla polizia albanese per un’irregolarità nei suoi documenti, e rispedito in Italia. Alban Elezi fu l’unica persona che Anas chiamò al telefono nelle poche ore in cui rimase nel paese.
“Alban Elezi è un criminale”, dice Mazllam Mazllami, imam di Prizren, in Kosovo. “Quello che ha fatto è stato un gesto criminale e io non sapevo nulla di quello che stava facendo”. Mazllami è un predicatore piuttosto famoso tra i musulmani più conservatori dei Balcani e i suoi sermoni su YouTube ricevono decine di migliaia di visualizzazioni. Anche se si fa seguire ovunque da un piccolo gruppo di seguaci, ci tiene a specificare che “non è un vip”. Secondo la magistratura italiana, Mazllami e Alban si sono incontrati almeno una volta nel corso di un’assemblea religiosa.
Nel settembre del 2014, Mazllami è stato arrestato insieme ad altre decine di predicatori e attivisti musulmani in tutto il Kosovo, un paese considerato in genere più religioso e tradizionale dell’Albania, dove il governo ha ottenuto la fiducia soltanto grazie ai voti di un partito islamico ispirato all’Akp turco. Mazllami era accusato di incoraggiare l’odio religioso e di aver diffuso discorsi violenti, ma poco dopo è stato prosciolto da ogni imputazione. I suoi discorsi radicali gli sono anche costati una breve espulsione dal Bik, l’associazione che raggruppa gran parte delle moschee del paese. Quando il presidente dell’associazione è stato sostituito da uno più accondiscendente nei confronti dei radicali, Mazllami è stato riammesso.
Avvicendamenti e lotte di potere sono piuttosto frequenti nel Bik e nel suo equivalente albanese, il Kmhs, due associazioni che ogni anno gestiscono gli ingenti fondi che arrivano da Turchia e paesi del Golfo persico per costruire scuole, moschee e finanziare borse di studio. In questi scontri non mancano accuse di corruzione, minacce e, in passato, persino omicidi.
Mazllami dice che il Bik lo ha riammesso, a condizione che mantenga un basso profilo. Negli ultimi anni, il Bik è stato preso di mira dalla stampa albanese non soltanto per gli scandali finanziari e per le prediche degli imam più radicali come Mazllami. In Kosovo, come in Albania, il problema dei foreign fighter sembra andato fuori controllo. Negli ultimi anni centinaia di albanesi etnici sono andati a combattere in medio oriente e oggi sono uno dei popoli che hanno prodotto il più alto numero di foreign fighter pro capite. Più di 40 persone sono partite per la Siria soltanto da Kacanik, una cittadina di 30 mila abitanti al confine con tra Kosovo e Macedonia. Uno di loro, Lavdrim Muhaxheri, è diventato un importante leader dello Stato islamico.
Ufficialmente, grazie agli sforzi del Bik e del governo, il problema è stato debellato. Besim Ilazi, sindaco di Kacanik, dice che dal settembre del 2014 nessun foreign fighter è più partito dalla sua città. Secondo gli esperti si tratta di poco più che propaganda e negli ultimi mesi in molti hanno deciso di seguire la strada di Muhaxeri. Trovare la sua casa a Kacanik non è facile. Il sindaco e la polizia dicono di non sapere dove si trovi e molti abitanti della città preferiscono non parlarne. “Sono un buon musulmano, non posso dire dove abitava Muhaxeri”, dice un venditore ambulante. Dopo ore di ricerca, si arriva a un edificio di tre piani con un piccolo giardino, poco fuori città. “Lo sento una volta al mese – dice il padre di Muhaxeri, che ci abita con sua moglie – Quello che gli accadrà sarà volere di Allah”.
La versione del governo albanese
“Se queste idee radicali hanno trovato spazio nella mente di persone che vivono in Svezia e Norvegia, non credo che dovremmo stupirci se trovano spazio anche nella più piccola e arretrata Albania”, dice nel suo ufficio il primo ministro Edi Rama, in perfetto italiano, mentre in mano tiene un pennarello con il quale ha appena fatto un disegno astratto sul foglio di carta davanti a lui. Prima di entrare in politica Rama era l’artista più famoso dell’Albania, con esposizioni a Londra e a Parigi. Oggi è a capo del Partito socialista del paese e presiede un governo di centrosinistra. “La risposta al radicalismo islamico – spiega – passa per lo sviluppo economico, ma anche per quello culturale”.
Nonostante abbia incrementato le misure antiterrorismo e abbia collaborato molto con le autorità italiane, come dimostra il rapido arresto e l’estradizione di Alban Elezi, Rama ritiene che il terrorismo si possa combattere davvero soltanto agendo sulle cause sociali ed economiche che lo generano. Per questo Rama parla spesso dei progressi che il suo paese ha compiuto su questi fronti. Nel 1997 l’Albania era un paese in crisi economica e sull’orlo della guerra civile. Oggi è una democrazia stabile con un’economia in crescita e una popolazione giovane e istruita. La nostra parola chiave continua a essere “modernizzare”, dice Rama.
“Ma come lo misuriamo il progresso del nostro paese?”, si chiede Fatos Lubonja in una bar di Firenze, la città dove trascorre gran parte dell’anno. E’ uno degli scrittori e intellettuali più ascoltati dell’Albania e tra i più severi critici del governo. “Dal nostro paese i giovani continuano a fuggire e gli oligarchi al potere sono la prosecuzione naturale del regime comunista”. E’ un regime che Lubonja conosce bene: condannato insieme al padre, ha trascorso 17 anni nelle carceri del dittatore Enver Hohxa. Secondo Lubonja, Rama non è riuscito a sconfiggere l’oligarchia al potere e l’Albania, più che all’Europa, assomigla ogni giorno di più al vicino Kosovo: “Tra due alternative, la nascita di un movimento di protesta contro l’oligarchia, come Syriza, e quello della nascita di un movimento religioso come l’Akp vedo più probabile quest’ultima”.
[**Video_box_2**]Il governo di Edi Rama ha giurato il 16 settembre 2013. Ventiquattro ore dopo, il secondo tentativo di Anas di raggiungere la Siria è andato a buon fine. Alle 23 del 17 settembre, è atterrato all’aeroporto di Istanbul dopo essere partito da Malpensa, quattro ore prima. Due mesi dopo, ha pubblicato su Facebook una foto in cui posa con un kalashnikov davanti a una bandiera nera dello Stato islamico. La foto è stata scattata ad Aleppo, in Siria. Nel gennaio del 2014, la magistratura italiana ha intercettato una sua telefonata al cellulare dei genitori. Il padre gli chiedeva di ritornare a casa, ma Anas è stato irremovibile: “Lascia stare questo discorso, hai capito dove sono o no?”. E’ stata una delle ultime telefonate di Anas ascoltate dalla polizia italiana. Dal febbraio del 2014 i genitori dicono di non aver più ricevuto notizie di loro figlio. Un ragazzo che gli somiglia è comparso in un video di propaganda dello Stato islamico pubblicato nel giugno del 2014, ma le immagini potrebbero essere state girate in qualsiasi momento. Oggi, nella sua casa di Synej, in Albania, Alban Elezi rimane in attesa della decisione del tribunale di Brescia sul suo rinvio a giudizio.