Putin ricevuto da Erdogan nella sua residenza di Ankara (foto LaPresse)

Da Putin a Erdogan. Perché è fuorviante una lettura leaderistica della geopolitica

Francesco Galietti
Le cronache mediatiche, com’è naturale di questi tempi, si soffermano sulla densa e delicata teoria di rapporti che descrive lo scacchiere mediorientale (in particolare quello mesopotamico). Nel farlo, tuttavia, tendono ad accentuarne gli elementi personalistici e a incentrare la propria capacitá descrittiva sui caratteri dei singoli.

Le cronache mediatiche, com’è naturale di questi tempi, si soffermano sulla densa e delicata teoria di rapporti che descrive lo scacchiere mediorientale (in particolare quello mesopotamico). Nel farlo, tuttavia, tendono ad accentuarne gli elementi personalistici e a incentrare la propria capacitá descrittiva sui caratteri dei singoli. Obama, Putin, Erdogan, Al Sisi, Merkel, Hollande sono invariabilmente protagonisti o comprimari di un dramma geopolitico a tinte forti. E’ evidente che alcune delle personalitá in questione ben si sposano con un plot teatrale – lo “zar” Putin, il “sultano” Erdogan – sono esempi immediati e noti a chiunque. E’ altrettanto chiaro che questa tendenza incontri gusti e sensibilità diffuse tra il pubblico, come suggerisce il docufilm Mediaset su Vladimir Putin, diffuso a ridosso dell’inizio del Giubileo.

 

Il leader fa capolino ovunque, quasi a fondere simbolismo e narrazione giornalistica. Parafrasando la celebre iscrizione dei quadri secenteschi, la tela geopolitica contemporanea potrebbe tranquillamente recare la formula “et in Arcadia, Putin”. La comunitá degli analisti di rischio politico conosce il fenomeno e di quando in quando indulge alla tentazione dei grandi affreschi di leader. Tuttavia, per quanto ciascuno debba fare i conti con il proprio pubblico e catturarne l’attenzione, è molto pericoloso concentrarsi sui leader e al contempo operare una rimozione degli imperativi strategici che (quelli sí) scandiscono i comportamenti degli stati. Si prendano le relazioni tra Turchia e Russia in rapido deterioramento, e la posizione di Washington e Nato: quanto contano le personalitá di Erdogan e Putin – e quanto invece gli interessi geopolitici dei rispettivi blocchi statuali? Se si guarda a questi ultimi, l’apparente contradditorietá nei comportamenti americani – che sostiene Erdogan e dá a intendere di essere pronta ad aprire ancora di piú l’ombrello Nato – si scioglie. Ad avviso di chi scrive, a fare premio su tutto il resto è infatti la volontá di impedire l’emergere di una potenza dominante in Eurasia. Volontá antica, e codificata in profonditá dai padri della dottrina geopolitica “anglo-american”. Le stesse diffidenze rispetto all’idea di un’Europa unita manifestatesi a intermittenza a Washington si spiegano proprio con questo riflesso. Difficile poi dimenticare le idee del cancelliere di ferro Bismarck, secondo il quale l'abbraccio tedesco con la Russia era inevitabile.

 

[**Video_box_2**]Se a venire in rilievo è dunque l’interesse atlantista a mantenere divisa l’Eurasia (e evitare saldature tra Europa e Russia), ecco che per Washington – per la sua burocrazia imperiale e il suo “stato profondo” piú ancora che per il presidente di turno – ha senso il sostegno alla Turchia. Anche se ciò significa, per esempio, assecondare l’ideologia di Davutoglu, primo ministro di Erdogan formatosi accademicamente in Malesia e massimo teorico del pensiero neo-ottomano, con tutto quello che ne consegue. E’ altrettanto evidente, poi, che se è lo spettro di una risorgenza eurasiatica a funestare l’armonia dell’occidente, il barometro geopolitico non volge al bel tempo. Il patronage offerto da Mosca a  formazioni politiche europee, come il Front National in notevole spolvero alle ultime amministrative francesi, non potrá che accentuare il nervosismo della filiera atlantica che ha cerchiato in rosso sul proprio calendario le elezioni politiche  francesi e tedesche – nel cuore della Ue e dell’Eurozona – nel 2017.  Il taccuino dell’analista di rischio politico per i prossimi mesi è dunque un concentrato di pessimismo? Forse no. A temperare le disarmonie occidentali vi è infatti un altro imperativo geopolitico profondo. Quello della Santa Sede, perno di quanto resta della malconcia spiritualità occidentale. La chiesa cattolica risponde infatti alla propria vocazione universalistica ed è impegnata da tempo in un lento e graduale processo di riabbraccio con il mondo ortodosso. Sarà ancora una volta il complesso gioco di pesi e pulegge geopolitiche a determinare la piega degli eventi. I leader, in compenso, conteranno fino a un certo punto.