L'accordo razzo sulla Libia
La conferenza internazionale di Roma aveva come scopo unificare i due governi della Libia in uno solo esecutivo – come preludio necessario a un intervento contro lo Stato islamico. La data prevista per la firma iniziale è domani, ma il clima che si respira è un generale “incrociamo le dita” e come ormai si è capito in Libia sarebbe meglio non affidarsi alla sorte come strategia politica, specie in questa fase storica successiva alle rivolte arabe. La conferenza sponsorizzata – bene – dall’Italia rischia di ottenere il risultato opposto perché voleva compattare due schieramenti in un fronte solo e rischia adesso di crearne almeno quattro, che sono: quelli del fronte di Tripoli che accettano l’accordo, quelli del fronte di Tripoli che non accettano l’accordo, quelli del fronte di Tobruk che accettano e quelli del fronte di Tobruk che non accettano. Non si tratta di un rischio minore e occulto, da giorni i politici libici minacciano scissioni armate in tv e la storia recente del paese ha dimostrato che questi malumori si trasformano in modo assai rapido in scontri nelle strade. Insomma, le parole del segretario di stato americano John Kerry, che a Roma ha assicurato che delegati libici presenti sono stati di certo rappresentativi di tutta la Libia, potrebbero essere smentite presto da fatti orribili (suona pessimista? E’ la Libia: non si pecca di eccessivo pessimismo).
Ieri un presidente di commissione di Tripoli, Abdelqadir Hwili, ha detto in televisione: “Se ci sarà un accordo il 16 dicembre avremo un governo senza potere, come quello di Maliki a Baghdad”. Il riferimento al governo di Nouri al Maliki in Iraq è pieno di sottintesi velenosi per l’occidente. Volevate un governo che facesse la guerra allo Stato islamico e invece avrete un governo come quello del primo ministro iracheno, che ha lasciato che lo Stato islamico ingoiasse quasi un terzo del paese. E ancora: “Saleh al Makhzum e gli altri membri del Congresso generale nazionale sono andati a Roma in rappresentanza di loro stessi”. Il che suona ancora più allarmante perché Hwili stesso fa parte del Congresso generale nazionale e quindi sta sconfessando i propri delegati. Come ha detto domenica Sharif al Wafi, un altro politico – indipendente – “il rischio è che ci troveremo un terzo governo con un terzo Parlamento”. Tobruk, Tripoli e dove, eventualmente? Questo ancora non si sa, perché una delle questioni cruciali che dovranno essere risolte in quaranta giorni a partire da domani è la sede che farà da capitale per questo “Governo dell’accordo nazionale” – da distinguersi da quello “di Salvezza nazionale”, che è quello attuale di Tripoli. L’ex ministro degli Esteri italiano, Emma Bonino, su questa troppa fretta ha pubblicato un lungo editoriale su Politico Eu.
In teoria la sicurezza della capitale Tripoli come sede più probabile del nuovo governo dovrebbe essere garantita dai gruppi combattenti di Misurata – che sono i più potenti del paese e ci tengono sempre molto a farlo sapere – e proprio Misurata era la meta di un volo del generale italiano Paolo Serra, una settimana fa. Il volo però è stato bloccato da Tripoli – dal vecchio governo s’intende, o meglio: ancora quello di adesso. Quelli di Tripoli hanno fermato Serra perché non vogliono che Misurata prenda le difese del nuovo governo unificato, ma cascano male perché secondo fonti del Foglio Misurata si è stancata della politica della capitale e (anche se la missione di Serra è stata rimandata) sta gettando il proprio peso a favore dell’accordo internazionale. Questa tensione fra le due città è da tenere d’occhio, perché i gruppi combattenti di Misurata sono gli unici che potrebbero presidiare con efficienza la capitale e sono anche quelli che dovranno formare il nerbo della futura offensiva contro lo Stato islamico, perché la loro è l’ultima città prima di Sirte, capitale del gruppo jihadista. Il fronte politico e quello militare passano da Misurata. Fino a oggi, l’unica formazione ad avere attaccato gli islamisti di Sirte via terra è la Katiba 166, il battaglione 166 – che si chiama così perché vuole trasmettere una eco di organizzazione militare nazionale, “Facciamo parte dell’esercito libico”, come alcuni suoi membri rivendicano con orgoglio parlando con il Foglio, ma non prendono ordini se non dai loro comandanti e non è ancora chiaro cosa faranno alla prova del pudding libico.
Sull’altro fronte, quello del governo di Tobruk, è ancora aperta la questione del generale Khalifa Haftar. L’Egitto ha scommesso sul generale come uomo forte che avrebbe rimesso in ordine il paese, ma la sua grande operazione Karama (Dignità) partita nel 2014 ha stentato a ottenere risultati – anche soltanto a Bengasi, da dove è partita. In città alcune fonti dicono al Foglio che il generale non si fa mai vedere perché è estromesso: le sue forze militari detestano le altre forze fedeli al governo di Tobruk. In tutto questo a marzo Haftar è diventato comandante in capo dell’esercito libico e il fatto che ora nove mesi dopo il suo ruolo sia già messo in discussione sull’altare del compromesso politico lo rende molto rigido sulle sue posizioni. Non vuole cedere adesso che potrebbe diventare capo delle forze armate per davvero, e non più soltanto il capo di una metà.
[**Video_box_2**]Ci sono rumor su un suo possibile rimpiazzo, un generale di nome Abdel Salam al Hasi che un mese fa avrebbe persino partecipato a un incontro negoziale dei militari con il Consiglio della rivoluzione di Bengasi. “Persino” perché in teoria tutti i rivoltosi di Bengasi che combattono contro Haftar e Tobruk sono terroristi, ma questa è un’altra di quelle questioni spinose che il nuovo governo dovrà risolvere da domani in tempo record. Chi sono i “terroristi”? Fino a ieri la definizione era usata con molta disinvoltura, come corpo contundente da scagliare contro tutti i nemici politici. Ora parlare di terrorismo sarà una faccenda più delicata, perché ci sono molti link ai gruppi islamisti libici e può essere che il neo governo di unità nazionale dovrà spesso far finta di non vedere in nome della lotta al gruppo islamista più pericoloso, lo Stato islamico.
Ieri il ministro della Difesa francese. Jean-Yves Le Drian, ha detto di nuovo che lo Stato islamico è in marcia verso la zona dei pozzi di greggio. Sabato scorso il Telegraph ha pubblicato un articolo sul governo inglese e sui suoi preparativi per un intervento in Libia e nel suo discorso di ieri Barack Obama ha definito l’Italia come “uno dei paesi che fa di più contro lo Stato islamico”, che non è vero dal punto di vista tecnico, ma suona come un ringraziamento in anticipo: in caso di operazioni militari, l’Italia sarà al centro di tutto per la sua posizione nel Mediterraneo.