I demoni dell'occidente
Leon Wieseltier ogni tanto prende fiato e fa precipitare il ragionamento in un aforisma dei suoi: “I demoni del mondo islamico hanno scatenato i demoni dell’occidente”. Il ragionamento riguarda lo stato di forma del nostro mondo e la sua capacità intrinseca, identitaria di rispondere al terrore. Chi siano loro è tragicamente chiaro. Dire chi siamo noi è più complicato. Quel cumulo stratificato di idee, usanze, princìpi, tradizioni, di concezioni della vita e della storia che va sotto il nome di occidente, concetto non lineare, al contempo radicato e sradicato, spazio imperfetto di convivenza di pretese assolute e pensieri relativi, si ritrova davanti a una domanda: abbiamo gli anticorpi filosofici e ideali per affrontare (e infine sconfiggere) l’ideologia mortifera dello Stato islamico? La mattanza coordinata di Parigi ha riproposto il problema in modo tragico; la strage di San Bernardino, in California, ha scioccato l’America per il senso di impotenza che la dinamica suscita, l’opera di terroristi islamici “homegrown” con regolari passaporti, permessi di soggiorno, villette suburbane e vita confortevole della middle class.
Syed Razwan Farook e Tashfeen Malik esteriormente erano l’incarnazione della “promessa della vita americana” narrata da Herbert Croly, erano stranieri che avevano abbracciato i “nostri valori”, come recita la cantilena passata sulle labbra di qualunque leader occidentale nell’ultimo mese. Nel buio dell’interiorità avevano però preferito al Baghdadi al tacchino del Ringraziamento e al tagliaerba nel backyard, e qui sta il problema: se i famosi “nostri valori” siano in grado di calarsi in quelle stanze interiori e offrire un’alternativa alle promesse apocalittiche del Califfato. Cantare “Imagine”, bere Beaujolais nei bistro di Parigi, scrivere “non avrete il mio odio”, copiaincollare sui social je suis Paris e prima je suis Charlie e domani je suis-qualunque-altra-cosa lascia la percezione di una certa insufficienza di pensiero, un certo languore di fronte a un nemico che uccide e si uccide per realizzare il suo ideale totalizzante.
Wieseltier, che è un liberale antirelativista con una mente informata dall’ebraismo, queste cose le sa bene. Le ha scritte e le ha fatte scrivere sulle pagine di The New Republic, dove è stato capo della sezione culturale per “alcuni secoli” come dice lui, salvo poi fuoriuscire lo scorso anno assieme all’ossatura della redazione, direttore compreso, per certi disaccordi sostanziali con il giovane editore, Chris Hughes. Ora continua a scriverle occasionalmente sull’Atlantic, e le dice alla Brookings Institution e a Harvard, dove tiene un corso su Mosé Maimonide. Intanto continua a scrivere un libro sul messianesimo guidaico che, dato il tema, non può che avere tempi di gestazione piuttosto lunghi. Domani chissà.
Non si tratta soltanto, spiega Wieseltier, di aspettare che la storia faccia il suo corso, nella progressista certezza che il lato giusto prevarrà immancabilmente su quello sbagliato, ma di ricomprendere e riaffermare la natura dell’identità occidentale: “Anche se l’occidente non è in pericolo di essere convertito all’islam, cosa che invece si poteva dire delle minacce ideologiche del Novecento, per resistere alla diffusione dell’ideologia dei terroristi deve riaffermare i suoi valori. Credo che la sfida vera sia proprio lì, al livello della capacità di affermare e difendere chi siamo. E noi non siamo soltanto trionfanti liberali che pensano di sconfiggere il male bevendo un latte macchiato mentre scriviamo su Twitter”.
Questa guerra, che definisce “ideologica e spirituale”, ha due fronti: “Il primo è interno al mondo islamico, dove si fronteggiano interpretazioni estremiste e mainstream o moderate della religione. Non c’è molto che possiamo fare per risolvere questo conflitto, se non qualche pressione marginale. Uno degli aspetti cruciali di questa crisi riguarda la possibilità dell’islam di trovare al suo interno una risposta al terrorismo, e credo che da questa ricerca dipenderà molto dell’esito di questa guerra. Il secondo fronte riguarda l’islam e l’occidente. I terroristi sono fieri di essere nel mezzo di questa battaglia che non è appena militare, ma è una battaglia per l’affermazione di una concezione del mondo e della storia. Per questo l’occidente ha bisogno di un’alternativa filosofica alla costruzione religiosa ed estremista, un’alternativa secolare, che però non significa irreligiosa o anticlericale. Esistono punti di intersezione fra le varie tradizioni, anche religiose, dell’occidente, e parlo dell’idea della persona, della dignità umana, dell’uguaglianza, del rispetto dell’altro, del pluralismo. Non sono cose da poco, ma quando diciamo ‘i nostri valori’ dobbiamo mettere un po’ di pressione su noi stessi per capire cosa stiamo dicendo”, dice Wieseltier.
E’ nella bolgia di questo conflitto di caratura universale che i demoni dell’islam hanno risvegliato quelli dell’occidente, mostrando “uno scontro all’interno dei nostri stessi valori”. Spiega: “C’è una collisione fra la tradizione liberale e quella autoritaria, nella sua forma nativista o fascista. La crescita di partiti di estrema destra e il successo dei populisti in America sono segni di questo scontro all’interno della civiltà occidentale. Quindi in superficie assistiamo a uno scontro di civiltà, ma più in profondità ci sono scontri speculari all’interno delle due parti. L’occidente deve prendere una decisione intorno a quale concezione della vita vuole affermare, e la destra la rappresenta come una lotta fra un credo e il relativismo. Io non credo che sia una cosa buona, ma va detto che la sinistra liberale, nel nome della lotta agli assolutismi, si è gettata fra le braccia di un relativismo pericoloso. L’affermazione pervasiva di una mentalità relativistica negli ultimi venticinque anni ha avuto un impatto negativo enorme sulla nostra capacità di reagire a una minaccia come quella del terrorismo islamico. Personalmente credo che l’idea materialista, nella forma selvaggia di questi tempi, sia alla base di questa involuzione, ma non è la tradizione democratica e liberale in sé ad essere in crisi. E’ la sua forma impoverita e relativizzata. I vari Trump e Le Pen stanno tentando, in modo diverso, di riportare in auge una tradizione che esiste in occidente”.
L’intellettuale liberal ammette che di fronte all’avanzata dello Stato islamico gli argomenti di questa tradizione “hanno più vitalità dei controargomenti della fazione liberale”. Alla parola “vitalità” è arrivato parlando di Israele, che la minaccia del terrorismo la vive non già come un’occorrenza accidentale della storia, ma come una dimensione dell’esistenza: “L’aspetto notevole e la conquista spirituale più grande di Israele è la vitalità che ha sviluppato in una condizione di minaccia e guerra costante. La mancanza di vitalità in Europa è un fatto preoccupante, e la sua origine è il materialismo”.
Idealmente alla testa dei leader vitali e preoccupanti mette Vladimir Putin: “La sua trasformazione da meschino burocrate a padrino del nazionalismo russo è uno dei fenomeni più sorprendenti di questo frangente storico. Di certo dimostra una cosa: la notizia della morte del nazionalismo era fortemente esagerata, la globalizzazione non l’ha ucciso, anzi. Già Marx sognava la fine di quello che considerava un artificio dell’ideologia borghese, ma era un’illusione, il nazionalismo è un sentimento profondo, basta osservare la crisi dei rifugiati siriani. Questo enorme spostamento di persone sta mettendo alla prova la vocazione europea dello stato-nazione. L’Europa è stata costruita sul principio della coincidenza ideale fra confini politici e culturali, mancava totalmente un’idea multietnica, e anche se l’applicazione pratica è stata molto complicata e ha generato l’enorme questione delle minoranze, l’idea dello stato-nazione non si è dileguata. La costituzione dell’Unione europea non aveva al centro un progetto culturale, era ed è una struttura burocratica che ratificava i rapporti nazionali esistenti, non ambiva a costruire un soggetto se non nelle fantasie di qualcuno. L’altro dato di questa crisi è lo sfaldarsi della struttura sovranazionale europea, che nei fatti non è mai esistita. E così la pressione dei rifugiati siriani non è solo sociale, economica, ma è filosofica e antropologica, sfida il modo in cui l’Europa pensa a se stessa”. La stessa cosa, dice Wieseltier, sta succedendo, ma tutta al contrario, in America, dove “Trump sta tradendo l’ideale multietnico degli Stati Uniti”. E anche in quel caso il crasso populista con il ciuffo biondo e la lingua sboccata non può essere tanto facilmente classificato come manifestazione patologica all’interno dell’organismo politico americano. E’ l’erede di una tradizione minoritaria proiettato sulla parte più avanzata del proscenio per via della mancanza di attori capaci di suscitare passioni altrettanto forti. In altri tempi Trump sarebbe stato un flocloristico rumore di fondo, non il dominatore del dibattito politico.
Altra pillola aforistica: “Obama è il primo presidente del XXI secolo”. E non è un complimento. La tesi di Wieseltier è che Obama è il primo presidente ad essersi lasciato alle spalle il XX secolo, con il suo bagaglio di frizioni ideologiche e i suoi demoni che non sono mai stati davvero messi in catene. “I limiti di Obama sono immensi a livello pratico e politico, ma c’è di più. Lui si rifiuta, primo caso di un presidente americano, di accettare la natura hobbesiana del mondo in cui vive, preferisce immaginare un mondo di leggi e regolamenti, come se tutto fosse una grande conferenza sul clima. Ma questo mondo è complicato, violento, anarchico, ci sono immense lotte di potere, c’è lo Stato islamico, c’è l’Iran e via dicendo. A Obama questo mondo non piace. Così ne ha creato un altro, molto più illuminato e cosmopolita, direi addirittura ‘planetario’, nel senso che ciò che definisce i suoi abitanti è la comune appartenenza a questo pianeta. Il mondo di Obama è guidato dalla ragione”.
[**Video_box_2**]Da “attento studioso di Obama”, Wieseltier non è d’accordo con chi lo giudica un pragmatico, un presidente post ideologico che giudica le decisioni soltanto in base ai risultati pratici, caso per caso. Obama non è una volpe, secondo la terminologia di Isaiah Berlin, il maestro di Wieseltier. “E’ un uomo dogmatico e dottrinario, non è empirico come lo è ad esempio Jimmy Carter. Obama si sente infallibile, è un altro Papa, uno che ha una visione della realtà, soltanto che non la esplicita. Ma la si può dedurre dalle azioni. Innanzitutto ha un’idea ‘whiggish’ della storia: tutto si aggiusterà nel lungo periodo, perché nella corsa verso il progresso c’è qualcosa di inevitabile. E’ un’idea stupida. Il progresso, questo il Novecento dovrebbe avercelo insegnato, ma Obama ha rimosso quel secolo, non è lineare, non è liscio, non è inevitabile. Lo sforzo per andare avanti non finisce mai, e quando si conquista una cosa poi occorre l’energia per difenderla. Lo avevano capito bene i rivoluzionari italiani che parlavano di ‘lotta continua’, e lo capiscono bene gli estremisti islamici che combattono contro di noi una guerra eterna. Ma per l’occidente materialista e relativista questa idea è ripugnante. Per consolarsi ha concepito l’idea idiota e per nulla profetica della ‘fine della storia’. Altro che finita, la storia è su di giri. Fra l’altro è una visione apocalittica, ed è una bella ironia, visto che l’idea liberale è sorta anche per criticare le letture apocalittiche del mondo. Uno dei grandi paradossi del liberalismo di oggi è che non fornisce gli strumenti adeguati per difendere se stesso, è come se avesse una malattia autoimmune”. Sul discorso alla nazione in cui Obama dallo Studio ovale ha detto, in sostanza, “siamo sulla strada giusta” mentre il mondo intorno brucia, Wieseltier ha diversi pensieri, quasi tutti irriferibili. “Mi limito a domandarmi questo: cose deve succedere perché l’America cambi strategia? A questo punto credo che tutto ciò che è meno di un altro 11 settembre non costituisca un motivo sufficiente per cambiare l’approccio. La sua ritrosia a intervenire negli affari del mondo è determinata dall’esperienza in Iraq, ma questo stesso fatto dimostra la sua concezione del mondo come un posto pulito e lineare, e tutto ciò che c’è di complicato e sporco va rimosso in blocco, dimenticato”.
E’ la conseguenza di un’aporia del pensiero liberale, spiegata con un altro aforisma, questa volta preso in prestito da Robert Frost: “Un liberale è un uomo troppo aperto di mente per poter difendere la propria posizione in una discussione”. Ci sono due visioni del liberalismo, dice Wieseltier: “La prima è esclusivamente procedurale, e ha come obiettivo finale la liberazione da tutte le ideologie. E’ un liberalismo negativo, una scatola vuota, e in seno a questa concezione si è sviluppato il relativismo. La seconda versione, quella a cui aderisco, sposa un’idea di persona e di storia, contiene una concezione del mondo che ha radici rintracciabili, anche religiose, ma è universalizzabile. Non c’è nulla di illiberale nell’avere idee positive, che vanno difese ed elaborate. Anzi, non c’è un vero liberalismo senza una concezione perimetrabile, e dunque difendibile, dell’uomo e della storia”. E la prevalenza della prima concezione sulla seconda è ciò che rende l’occidente incapace di ritrovare nel proprio organismo le armi giuste per scacciare i demoni scatenati dall’islam.
I conservatori inglesi