Il rischio dell'irrilevanza per la sinistra spagnola
Le elezioni politiche di ieri hanno trasformato la Spagna in Pirrolandia. Tutti hanno vinto e tutti hanno perso. Ha vinto il Partito popolare di Mariano Rajoy, che ha distanziato il gruppo con il suo 28,7 per cento. E ha perso il Partito popolare di Mariano Rajoy, che ha avuto un’emorragia pari a tre milioni e mezzo di voti (nonostante un aumento dell’affluenza complessiva) e ha ottenuto soltanto 123 seggi, perdendone 63 rispetto al 2011 e rimanendo lontanissimo dai 176 che garantiscono la maggioranza. Ha vinto il Partito socialista di Pedro Sánchez, che ha ridotto i danni ed è riuscito a mantenere, con un certo margine, la seconda posizione. E ha perso il Partito socialista di Pedro Sánchez, che, con il suo 22 per cento e i suoi 90 seggi, ha robustamente rifilato verso il basso i peggiori risultati di sempre del Psoe e non ha minimamente approfittato del crollo elettorale del Pp e, anzi, ha perso un milione e mezzo di voti.
Hanno vinto anche i Ciudadanos di Albert Rivera, che sono passati dal non esistere a livello nazionale ad avere il 14 per cento dei voti e a conquistare 40 seggi. E hanno perso anche i Ciudadanos di Albert Rivera, che erano stati convinti dai sondaggi di poter competere per la seconda posizione e per il 20 per cento abbondante dei voti e invece sono arrivati quarti e non sono determinanti come avrebbero voluto (la somma tra i loro seggi e quelli del Pp non è sufficiente per una maggioranza). Ha vinto persino la Izquierda Unida di Alberto Garzón, che era destinata alla scomparsa a causa della formidabile concorrenza di Podemos (che aveva schifato ogni ipotesi di alleanza) ed è invece riuscita a conquistare un dignitosissimo 3,7 per cento. Ma ha perso la Izquierda Unida di Alberto Garzón che, punita duramente dalla legge elettorale, è rimasta sola soletta a fare la guardia al bidone, che contiene i soli due seggi che ha ottenuto. Hanno vinto i nazionalisti, che dalla frammentazione e dall’incertezza hanno tutto da guadagnare e da contrattare. E hanno perso i nazionalisti, visto che gli indipendentisti radicali baschi di Bildu hanno perso cinque dei loro sette seggi e che il partito di Artur Mas, che sogna di condurre la Catalogna all’indipendenza, proprio nella sua Catalogna è arrivato soltanto quarto.
E Podemos? Naturalmente, hanno vinto anche Podemos e il suo leader Pablo Iglesias, anzi a prima vista hanno vinto più di tutti gli altri ottenendo, alla loro prima partecipazione alle elezioni politiche, il 20,7 per cento dei voti e 69 seggi e contribuendo in modo sostanziale allo sgretolamento del fin qui inscalfibile bipartitismo spagnolo. Eppure, guardando meglio e in prospettiva, quella di Podemos è una sconfitta peggiore di quella di quasi tutti gli altri e Pablo Iglesias è l’uber-Pirro. Non soltanto perché è arrivato soltanto terzo, as usual: era arrivato (al massimo) terzo anche in tutte le Regioni in cui si è votato nel maggio di quest’anno e addirittura quarto alle Europee dell’anno scorso. Ma soprattutto perché i suoi 69 seggi sono i più inutili del Parlamento. Innanzitutto perché, per un partito dalle venature messianiche e palingenetiche, che vorrebbe riformare secondo nuovi (e fumosissimi) paradigmi, e possibilmente da solo, la Spagna e di lì l’Europa e il mondo tutto, 69 seggi sono una piattaforma strettina. E, in secondo luogo, perché il risultato di Podemos è frutto di una raccolta di voti assai disomogenea. Cercando di replicare il modello “listone civico”, grazie a cui ha “ottenuto” qualche mese fa importanti municipi come Madrid e Barcellona (le virgolette sono d’obbligo perché è una forzatura il considerare tout court come di Podemos i sindaci di queste città), il movimento di Pablo Iglesias si è presentato agli elettori con varie sigle diverse. Per esempio, in Galizia i cittadini hanno trovato sulla scheda En Marea, nella Comunidad Valenciana hanno trovato Compromís-Podemos-És El Moment, in Catalogna hanno trovato En Comú Podem.
[**Video_box_2**]Per capire quanto sia complicato e difficile da gestire a Madrid il patchwork podemista intessuto di istanze localiste, bisogna anche considerare il fatto che da ieri nello stomaco del partito di Pablo Iglesias fermentano i voti di molti elettori indipendentisti che hanno creduto nella sua promessa di voler difendere come condicio sine qua non per qualunque accordo politico l’autorizzazione per i catalani (e poi per tutti gli altri indipendentisti?) di contarsi in un referendum sulla separazione definitiva da Madrid. Podemos, infatti, è arrivato primo soltanto in quattro province: Barcellona e Tarragona, in Catalogna, e Gipuzkoa e Alava, nei Paesi Baschi. Questo successo è derivato dal fatto che Podemos ha convinto pezzi del mondo nazionalista e soprattutto ha divorato l’elettorato di due partiti ultraindipendentisti, la Candidatura di Unitat Popular in Catalogna (che non si presenta alle elezioni “straniere” spagnole) e Bildu nei Paesi Baschi (i cui elettori non avevano tradito il partito neppure quando impazzava il terrorismo di Eta e i politici radicali si rifiutavano di condannare qualsiasi azione violenta). Non per nulla, 17 dei suoi 69 seggi Podemos li ha conquistati in Catalogna e nei Paesi Baschi.
La difesa del referendum di autodeterminazione catalano, proprio in un momento in cui i nazionalisti in genere sono in grande crisi elettorale, rende inutilizzabili i voti di Podemos per chiunque a Madrid voglia provare a formare una coalizione di governo che non abbia esplicite tendenze suicidali. Tanto più che si tratta di un’ipotesi del tutto inaccettabile per i popolari e ancor più per Ciudadanos, che fa del canto “soy español, soy español, soy español” il ritornello con cui consolarsi per un risultato elettorale buono ma non eccezionale. Soltanto sulla carta l’ipotesi referendaria sarebbe più potabile per il Psoe. Infatti, a parte il fatto che la somma dei seggi dei socialisti, di Podemos e di Izquierda Unida non potrebbe garantire una maggioranza, per il Psoe sarebbe un massacro l’andare a difendere davanti ai suoi elettori a Siviglia o a Cáceres la necessità di un referendum a Barcellona.
Viceversa, se Podemos provasse ad affacciarsi nei giochi di coalizione mettendo tra parentesi la questione referendaria, tutti, ma proprio tutti gli indipendentisti che questa volta hanno prestato il loro voto a Iglesias gli sottrarrebbero ogni possibile appoggio futuro. Sembrerà, forse, poca cosa. Ma, dato il sistema elettorale spagnolo e i delicatissimi equilibri politici centro-periferia, questo vorrebbe dire per Podemos “ciao 20,6 per cento” e “ciao primo posto in almeno quattro province”. Ma, soprattutto, “ciao 69 seggi”.