Conservatori in rivolta
Milano. “Crowd-sourcing: il nome del partito che dovremo far partire se Trump vince la nomination repubblicana? Suggerimenti benvenuti a [email protected]”. Con questo tweet il direttore della rivista americana Weekly Standard, Bill Kristol, ha lanciato la campagna tutta interna al mondo conservatore contro Donald Trump: lui non ci rappresenta, se davvero dovesse vincere le primarie, dovremo lasciare a lui il Gop, il nome almeno, e noi raggrupparci sotto un’altra sigla – consigli? Kristol non è solo: tutti i commentatori pensavano che, arrivati a poco più di un mese di distanza dall’inizio delle primarie in Iowa, la candidatura Trump fosse già defunta.
Non si può dire che Trump non ci abbia messo del suo, con le uscite controverse e un orgoglio politicamente scorretto che fa rabbrividire, ma il consenso c’è, eccome. Al punto che oggi sono gli altri – l’establishment del Partito repubblicano – che si devono organizzare. Jeff Greenfield, giornalista, scrittore, ex speechwriter di Robert Kennedy, ha scritto su Politico: “Se le persone con cui ho parlato hanno ragione, il fatto che Trump diventi il candidato repubblicano può generare la candidatura di un terzo partito, formato dai repubblicani stessi”. Sempre Politico ha raccontato che il team di Jeb Bush, altro candidato alle primarie ma di scarso successo finora (non doveva essere l’elezione delle dinastie?), “sta iniziando a esplorare la possibilità di rompere in pubblico con Trump – potenzialmente se Trump dovesse essere nominato, Bush non lo sosterrebbe”. Ben Shapiro, star agguerrita del giornalismo conservatore di Breitbart e Daily Wire, ha messo in fila i segnali dell’insofferenza all’interno del Gop, partendo da Kristol, e sintetizzandolo così: dice quel che molti non hanno il coraggio di dire, cioè meglio Hillary che Trump. Alcuni commentatori importanti lo dicono: Bret Stephens ha scritto sul Wall Street Journal che, a questo punto, conviene votare subito Hillary; Max Boot ed Eliot Cohen concordano: se Trump è il candidato, io voto Hillary.
[**Video_box_2**]A novembre il sito politico The Hill ha raccontato che alcuni contribuenti del Gop stavano contemplando, “per la prima volta nella storia recente”, di non sostenere un repubblicano alla presidenza. Nella storia recente in realtà ci sono stati altri casi di rivolta: quando il senatore dell’Arizona Barry Goldwater vinse la nomination nel 1964, molti repubblicani si rifiutarono di appoggiarlo, preferendogli addirittura Lyndon Johnson. Lo stesso accadde, senza successo, nei confronti di Ronald Reagan, quando molti sostennero George H. Bush nel 1980. Shapiro, cantore degli outsider, sottolinea infastidito: “Mentre l’establishment repubblicano vuole far pensare a tutti che Reagan è stata una sua creazione, in realtà all’inizio fece di tutto per fermarlo”. Il messaggio è chiaro: l’establishment combatte tutto ciò che è antiestablishment, qualsiasi forma esso prenda, capita anche con Ted Cruz, altro candidato outsider molto popolare. Tra le righe resta lo scontro identitario in corso nel partito da parecchi anni, con l’ascesa dei Tea Party e della cosiddetta “pancia conservatrice”, con incomprensioni anche paradossali, come scrive David Frum sull’Atlantic in un articolo dal titolo, appunto, “The Great Republican Revolt”: “Contro ogni evidenza, i finanziatori del Gop hanno interpretato il Tea Party come un movimento a favore dell’agenda delle pagine degli editoriali del Wall Street Journal”. Incomprensioni o no, Hillary ringrazia.