Origliare alleati e deputati
L'intelligence di Obama ascoltava il riottoso Bibi, ma anche il Congresso
New York. Un’inchiesta del Wall Street Journal racconta che i servizi d’intelligence degli Stati Uniti hanno spiato in modo sistematico il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e il suo entourage. La National Security Agency è penetrata nelle comunicazioni riservate di un leader che ha minacciato di bombardare le installazioni nucleari dell’Iran anche senza il consenso di un’Amministrazione che nel frattempo stava negoziando in segreto con Teheran un accordo sgradito – eufemismo – all’alleato israeliano. Barack Obama non si è fatto pregare per utilizzare a suo vantaggio il materiale che i servizi d’intelligence gli passavano, specialmente quando “stringenti motivi di sicurezza nazionale” imponevano di esercitare un rigido controllo sul turbolento asse Washington-Gerusalemme. Spiare governi stranieri, anche alleati, è una consuetudine ufficiosa, non un’eccezione, fatto che il Wall Street Journal sintetizza con un episodio. Qualche tempo fa gli agenti della Nsa hanno pizzicato i colleghi dell’Unità 8200, specializzata nella penetrazione dei sistemi informatici, dentro a reti protette dell’intelligence americana. Colti con le dita nella marmellata, gli israeliani hanno detto che erano finiti da quelle parti per errore. La Nsa ha risposto: “Non vi preoccupate, anche noi facciamo degli errori”. Il Wall Street Journal documenta per la prima volta estensione e profondità degli “errori” dell’intelligence americana nei confronti di Israele, un trend che si è intensificato notevolmente quando gli americani hanno preso a trattare in modo riservato con gli ayatollah. Se la voce fosse arrivata al governo di Netanyahu, l’accordo che Obama ha caricato di un valore epocale per la sua politica estera sarebbe stato messo a repentaglio.
Le rivelazioni dell’ex contractor della Nsa Edward Snowden hanno fatto indispettire plotoni di alleati americani, a partire dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, e nel 2014 Obama ha annunciato la fine dell’irritante pratica. In realtà, l’Amministrazione ha compilato una lista di alleati “protetti” dalle intrusioni, e fra questi ha messo Germania, Francia e altri. Chi non compare nella lista ha continuato a ricevere – e senza dubbio a ricambiare – le attenzioni di sempre. La delicatezza strutturale della relazione fra Stati Uniti e Israele si sovrappone alla disfunzionalità – altro eufemismo – nei rapporti fra Obama e Bibi, che negli anni sono oscillati fra l’ostile freddezza e l’aperto dissenso. Gli attriti sono culminati con la campagna presso il Congresso per contrastare l’accordo con l’Iran. Attraverso la raccolta di intelligence, la Casa Bianca sapeva già alla fine del 2014 che Netanyahu era pronto a scatenare un’offensiva per fermare il deal che si stava delineando, e l’invito dei leader repubblicani a parlare al Congresso serviva allo scopo. Dopo la firma dell’accordo Israele ha continuato a fare pressione su deputati e senatori che erano chiamati a ratificarlo, si parla di offerte esplicite alla truppa di indecisi (“cosa ti serve per votare ‘no’?”) in cambio di un voto contrario. E’ questo l’aspetto più complesso e allarmante dell’inchiesta. Per quanto imbarazzante, lo spionaggio fra governi non è una sorpresa. Che però nello spiare l’America sia incappata nelle conversazioni riservate di membri del Congresso è faccenda più delicata. Spiare i rappresentanti del popolo non è come spiare un leader straniero, e per questo ieri la commissione Intelligence della Camera ha aperto un’inchiesta sulle rivelazioni del Wsj. I regolamenti della Nsa dicono che le informazioni che riguardano membri del Congresso raccolte “di rimbalzo” mentre si segue un obiettivo straniero vanno distrutte, ma il capo dell’agenzia ha la facoltà di conservare i dati se contengono “intelligence significativa”. Così, a quanto pare, ha giudicato nel caso del lavorìo lobbistico d’Israele presso il Congresso, una battaglia che – secondo il materiale intercettato – Netanyahu si è illuso fino all’ultimo di poter vincere.