Schengen ora scricchiola anche lì dove l'accoglienza è un must
Roma. Il trattato di Schengen – la libera circolazione di persone e merci nell’Unione europea – ha perso due altri pezzi pregiati: Svezia e Danimarca. La prima ha reintrodotto i controlli d’identità per chi arriva dal secondo, in grandissima parte attraverso il ponte di Øresund che dal 2000 collega Malmö alla capitale danese Copenhagen. E la Danimarca ha sospeso Schengen, per ora fino al 14 gennaio, al confine con la Germania, quindi con l’Europa continentale. Dunque non ci sarà più modo di spostarsi liberamente tra Danimarca e Svezia, cosa che riporta agli anni Sessanta: i documenti vengono controllati nella stazione ferroviaria dell’aeroporto Kastrup di Copenhagen e dall’altra parte alla stazione di Hillie. Sono comparse barriere simili a quelle che sollevarono orrore quando le innalzò l’Ungheria di Viktor Orbán; solo che qui siamo nella politicamente correttissima Scandinavia. Intanto a farne le spese sono i quasi 9 mila pendolari danesi, ed è un paradosso che il ponte, con un’autostrada e una ferrovia, costato all’epoca 3 miliardi di dollari, avesse lo scopo di sviluppare “un grande polo europeo di affari, trasporti, ricerca ed educazione”.
Ovviamente non sono i danesi il problema della Svezia, così come non sono i tedeschi quello dei danesi. Lo sono invece i 100-300 migranti extra Ue che ogni giorno passano alla Danimarca dalla Germania e che nel 2015 hanno considerato quella svedese la meta finale – 150 mila richieste d’asilo, in proporzione il paese più ospitale d’Europa – e la Danimarca (18 mila richieste) un paese di transito. “Fino a che l’Europa non sarà in grado di proteggere i propri confini esterni vedrete sempre più paesi costretti a misure come queste”, ha dichiarato il premier liberale danese Lars Løkke Rasmussen. “E’ qualcosa che tutti dobbiamo prendere molto seriamente perché avrà un impatto sulla nostra prosperità”. Il governo tedesco intanto non l’ha presa bene ed è stato il primo a reagire: “La soluzione non potrà di certo essere trovata alla frontiera tra paese A e paese B. Ogni decisione non potrà essere che comunitaria”, ha detto Steffen Seibert, portavoce di Angela Merkel, chiedendo un ennesimo summit della Ue.
[**Video_box_2**]Tuttavia la Cancelliera è a sua volta sotto pressione nel suo partito. Horst Seehofer, leader della Csu, il ramo bavarese della Cdu, chiede un tetto di 200 mila rifugiati nel 2016, dopo il milione arrivati nel 2015. Solo in Baviera sono giunti a dicembre 4 mila rifugiati in media ogni giorno, il che porta le previsioni 2016 a 1,5 milioni per l’intero paese: aggiungendo i familiari e chi entrano legalmente per motivi di lavoro si arriva a 3,5 milioni di stranieri in tre anni. Ma la Merkel, dopo avere aperto le porte ai siriani, ribatte che non può stabilire quote senza controlli permanenti alle frontiere esterne: “Di fatto, la fine di Schengen”. Considerando quanti, tra migranti e terrorismo, hanno già temporaneamente sospeso il trattato – Ungheria, Austria, Slovenia, Francia, la stessa Germania, tornano d’attualità soluzioni radicali, ma forse di buon senso. Pieter Cleppe, capo dell’ufficio di Bruxelles di Open Europe, un think tank liberista con sede anche a Londra, si chiede: “Che cosa aspetta ancora l’Europa ad abbattere il tabù di una soluzione all’australiana?”. Ovvero, come fa da tempo il governo di Camberra: bloccare l’ingresso dei migranti irregolari con l’accompagnamento coatto via mare in campi-asilo, e trattamento umano, in Papua Nuova Guinea e Nauru, paesi con i quali l’Australia ha stretto per questo accordi economici. Ma dove potrebbe l’Europa confinare chi punta alla Svezia e alla Germania? Cleppe suggerisce paesi borderline come la Turchia (alla quale la Merkel ha garantito tre miliardi di fondi comunitari). Certo bisognerebbe individuare luoghi dai quali non sia facile scappare rendendo inutile il meccanismo: Nuova Guinea e Nauru sono isole.