Diplomazia interrotta
Milano. L’Arabia Saudita provoca, l’Iran risponde, gli alleati dei sauditi si accodano, gli alleati degli iraniani fanno altrettanto, i toni si inacidiscono, le sedi diplomatiche vengono violate, le accuse diventano più feroci, l’allerta militare è alta, nei paesi satelliti iniziano le rappresaglie. Se vi pare di averla già vista, questa dinamica, è perché la cosiddetta “guerra sottotraccia” – lascia in realtà tracce evidenti e brutali – tra sunniti e sciiti va avanti dalla morte di Maometto, ed è violenta e apertissima. Oggi, al contrario di quel che è accaduto negli ultimi 40 anni circa, c’è una differenza, che non riguarda soltanto il mondo islamico e la sua guerra interna, ma anche l’occidente: l’Iran, isolato dopo la rivoluzione islamica del 1979 e considerato dagli Stati Uniti a tutt’oggi il più grande stato sponsor del terrorismo globale, è stato accolto nei consessi internazionali, dopo anni di mani tese da parte dell’Amministrazione Obama e dopo il “deal storico” sul programma nucleare di Teheran siglato nel luglio scorso. Con l’apertura alla Repubblica islamica di Iran, l’Amministrazione Obama sperava di innescare un processo virtuoso di pacificazione e stabilizzazione dell’area mediorientale: meglio coinvolgere gli ayatollah piuttosto che escluderli, così si può negoziare insieme sui fronti di guerra che minacciano la sicurezza dell’occidente. Era una scommessa pericolosa, più volte il presidente Barack Obama ha detto di essere consapevole del rischio, di conoscere bene la “sponsorizzazione del terrorismo” perpetrata da Teheran, di essere pronto a reagire con forza a ogni violazione del patto, ma il “deal storico” sul nucleare è la stella più splendente del suo mandato, non può essere sacrificata con leggerezza. Così il segretario di stato globetrotter, John Kerry, da mesi scende a patti con gli iraniani e intanto rassicura gli alleati storici, Israele e i sauditi, nervosi e preoccupati, pronti soprattutto a fare da sé per difendersi (e a volte per attaccare). E’ bastata una provocazione – diretta, brutale – da parte di Riad contro l’Iran, l’esecuzione dell’imam sciita Nimr al Nimr, per far saltare ogni patto, ogni rassicurazione, ogni cautela. L’Arabia Saudita ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran e ieri i suoi alleati più fedeli hanno fatto lo stesso: il Bahrein, che ospita la Quinta flotta degli Stati Uniti, e il Sudan hanno interrotto i rapporti con Teheran, mentre gli Emirati arabi uniti, dove vivono migliaia di iraniani, hanno ritirato l’ambasciatore, lasciando però aperti i rapporti commerciali.
L’azione americana di apertura all’Iran ha contribuito a far (ri)scoppiare una guerra infraislamica secolare, oggi alimentata da ambizioni nucleari, creando dilemmi strategici (nonché morali) piuttosto imbarazzanti. Il primo: con chi schierarsi, con i sauditi o con gli iraniani? Il Wall Street Journal ha riportato la dichiarazione di un diplomatico saudita: prima o poi gli Stati Uniti dovranno decidere da che parte stare – e noi europei dovremo fare altrettanto. Washington è il principale sostenitore militare di Riad, l’Amministrazione Obama ha venduto armi al regno per un valore di circa 100 miliardi di dollari, e nonostante la questione siriana abbia raffreddato i rapporti – nel maggio scorso il re saudita ha ignorato l’invito americano a un vertice a Camp David – l’alleanza continua a essere stabile. Ma ora gli Stati Uniti sono i fautori della presenza degli iraniani ai tavoli dei negoziati internazionali, e anche se Obama ha spesso ripetuto che il deal è l’inizio di un processo in cui ogni passo deve essere verificato, al primo intoppo Washington ha deciso di soprassedere. Teheran ha testato missili balistici in violazione degli accordi internazionali, la Casa Bianca ha notificato al Congresso che avrebbe introdotto misure sanzionatorie ma ha poi improvvisamente deciso di rimandare – non si sa a quando – la decisione. Persino i deputati democratici hanno esternato ogni genere di preoccupazione, ma l’implementation day che dà l’avvio al deal sul nucleare (stabilisce la sospensione di sanzioni all’Iran per un valore di circa 100 miliardi di dollari) è previsto entro gennaio e pure se il processo di verifica e controllo che fa da garanzia a ogni concessione è già stato sbugiardato, nessuno si vuole assumere la responsabilità di rovinare questo momento.
[**Video_box_2**]Laddove la capacità di mediazione degli Stati Uniti s’indebolisce, arriva la Russia, ed ecco il secondo dilemma. Ieri Mosca si è offerta come negoziatrice tra Arabia Saudita e Iran: conosciamo bene gli interlocutori, dicono i russi, possiamo trovare un terreno comune. Non è la prima volta che Vladimir Putin si infila nei tentennamenti obamiani: accadde quando, rimangiandosi la linea rossa, Washington accettò che i russi negoziassero con il regime di Damasco la consegna e la distruzione delle armi chimiche presenti in Siria. Per molti mesi, quel processo fece da alibi alla riluttanza di Obama a ogni intervento contro il regime di Bashar el Assad. Oggi che la Russia è presente in Siria con la sua aviazione, aiuta le forze del regime siriano e quelle del regime iraniano a combattere più l’opposizione a Damasco che lo Stato islamico – obiettivo finale: conquistare Aleppo e consolidare il controllo sulla Siria occidentale – un mandato da mediatore è un bottino ancora più prezioso. Da quando Mosca si è schierata con le forze sciite, la rappresaglia saudita si è fatta sentire soprattutto sulla questione petrolifera: rifiutandosi di tagliare la produzione, Riad ha fatto collassare il prezzo del petrolio, assestando un colpo violento alla debole economia russa e diminuendo il potenziale dell’Iran che si riaffaccia sul mercato. Il Wall Street Journal scrive che Mosca e Teheran lavorano attivamente alla destabilizzazione dell’Arabia saudita – dice anche che bisogna difendere l’alleato storico invece che lasciarsi ammaliare dall’amante iraniano appena trovato – e non è un caso che la Russia si sia subito candidata alla mediazione nella guerra infraislamica. Nelle emergenze nessuno bada più di tanto all’imparzialità.