Mosca (non è) cieca
Roma. Ieri il prezzo di un barile di Brent, cioè il greggio di riferimento del mare del Nord, è sceso ancora fino a sotto i 35 dollari, toccando i livelli minimi da 11 anni. C’entra la domanda mondiale di petrolio che non decolla. E c’entra soprattutto l’offerta di oro nero che non sembra destinata a frenare, specie dopo la recente frattura diplomatica tra Iran e Arabia Saudita, i due paesi più importanti del cartello dei produttori dell’Opec che da mesi erano alla ricerca di una difficile intesa per ridurre la produzione.
Se c’è un luogo dove si studiano tutte le contromisure rispetto a tali sconvolgimenti, quello è la Banca centrale russa. Circa metà del gettito fiscale di Mosca è generato dai proventi delle vendite di gas e petrolio, per non dire del giro d’affari delle società produttrici ed esportatrici. Nel 2015 il pil russo si è contratto del 3,7 per cento. Quest’anno i più ottimisti si attendono una risalita, i più realisti una contrazione limitata o forse nulla, ma l’autorità di politica monetaria del paese prevede un’altra forte recessione (2-3 punti percentuali) “nello scenario estremo” di un prezzo che scendesse sotto i 35 dollari al barile, cioè esattamente quello attuale.
Gli stessi prezzi in caduta libera, invece, “hanno fatto finora la fortuna dei politici occidentali”, scrive Emma Ashford, studiosa del Cato Institute di Washington, nell’ultimo numero di Foreign Affairs. “Le sanzioni hanno coinciso con il collasso dei prezzi petroliferi globali, peggiorando ma non causando il declino economico della Russia. Il tasso di cambio del rublo ha seguìto i prezzi del greggio più da vicino di qualsiasi nuova sanzione, e molte delle scelte fatte dal governo russo, inclusi i tagli di bilancio, sono simili a quelle attuate quando i prezzi del petrolio scendevano durante la crisi finanziaria del 2008”. La Ashford è scettica, insomma, sugli effetti di quelle che definisce “not-so-smart sanctions”, vale a dire le restrizioni finanziarie e commerciali che Washington e Bruxelles stabilirono nell’estate 2014 per rispondere alle politiche interventiste di Vladimir Putin in Ucraina (con tanto di annessione tout court della Crimea). La Ashford, sulla rivista del Council on Foreign Relations, sostiene che i costi delle attuali politiche hanno superato i benefici, in primis per l’occidente; tanto vale prenderne atto e esercitare pressioni su Mosca in altra maniera. La studiosa osserva che “se le sanzioni sono giudicate in base al criterio principale, cioè se stiano causando o meno un’inversione delle politiche russe, esse si rivelano un completo fallimento”.
Dal 2014 infatti Putin non ha fatto un passo indietro rispetto al suo coinvolgimento in Ucraina; ammissioni in tal senso sono venute dalla stessa Amministrazione Obama. Nel frattempo però si sarebbero dispiegate tutte le “conseguenze inintenzionali” negative delle sanzioni. Primo, il Cremlino è riuscito a schermare da danni eccessivi le proprie élite che erano originariamente nel mirino, spalmando i costi della crisi complessiva sulla popolazione. Inoltre gli stessi colossi energetici russi, tra abboccamenti con la Cina (Gazprom) e accordi con società europee come la norvegese Statoil (Rosneft), hanno aggirato alcuni vincoli. Senza contare i contraccolpi subìti in occidente per la risposta russa. In questi primi giorni del 2016, Ucraina e Russia hanno ripreso a guerreggiare a suon di dazi commerciali, riproducendo uno schema già visto all’opera negli scorsi mesi tra Mosca e altre cancellerie europee. Per questo motivo, infatti, la Commissione Ue stima 0,3 punti di pil persi nel 2015 in tutta l’Ue. Secondo la Ashford, un paese come la Germania, primo partner economico della Russia in Europa, potrà perdere fino a 400 mila posti di lavoro (anche se finora Berlino fa segnare picchi record di occupazione).
[**Video_box_2**]Proprio l’atteggiamento del governo tedesco è stato criticato a dicembre dall’esecutivo italiano di Renzi per un presunto doppio standard: Angela Merkel chiede agli alleati di prolungare le sanzioni, poi però rilancia accordi energetici esclusivi col presidente Putin (vedi il gasdotto Nord Stream 2). “E’ la prova che oggi il sentimento di solidarietà dei tedeschi sembra fermarsi ai confini della Germania”, ha scritto Jim Hoagland, editorialista del Washington Post, appoggiando la sortita di Roma. “Il presidente Obama dovrebbe (…) assicurarsi che la Germania tenga fede ai propri elevati standard di disciplina e solidarietà con i suoi partner”.