Il Messico ri-ri-arresta il “Chapo” e ripara la grande umiliazione
Roma. Il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha annunciato ieri su Twitter l’arresto di Joaquín Guzmán Loera, detto il “Chapo”, il più potente narcotrafficante del paese e forse del mondo. “Missione compiuta, è nelle nostre mani. Voglio informare i messicani che Joaquín Guzmán Loera è stato arrestato”, ha scritto Peña Nieto sul social network, per poi ringraziare in un altro tweet il gabinetto di Sicurezza del governo. Guzmán è stato arrestato in un hotel nella città di Los Mochis, nello stato messicano di Sinaloa, roccaforte del narcotrafficante, durante un’operazione della marina iniziata alle 4.30 del mattino. Prima ancora dell’annuncio di Peña, la marina aveva emesso un comunicato sull’operazione, in cui non citava mai Guzmán ma parlava di duri scontri a fuoco tra soldati e narcotrafficanti, iniziati dopo la denuncia di un cittadino che si era lamentato perché c’erano degli uomini armati in un edificio vicino a lui. Fonti della polizia messicana dicono che oltre alla marina, corpo d’élite scelto per la sua efficacia e incorruttibilità, all’operazione hanno partecipato anche la Dea, l’antidroga americana, e gli Us Marshals. Durante lo scontro a fuoco sono morti cinque presunti criminali, un marine messicano è stato ferito e sei persone arrestate. Tra queste, secondo i media messicani, c’era anche il capo narcos. Le prime foto lo mostrano con indosso una canottiera sporca e lo sguardo fisso nel vuoto dentro a un mezzo dei militari. Nell’operazione sono anche stati sequestrati quattro veicoli, di cui due blindati, otto fucili, due pistole, caricatori, munizioni e un lanciarazzi.
L’arresto di Guzmán è in realtà un ri-ri-arresto. Il narcos era stato catturato già nel 1993, ma era evaso nel 2001 dal carcere di massima sicurezza di Puente Grande con una fuga rocambolesca, probabilmente nascosto dentro a un carrello della lavanderia. Dopo l’evasione, Guzmán si è rafforzato come capo del cartello cosiddetto di Sinaloa, ha costruito il più grande impero della droga della storia recente del Messico, ed è stato tra i protagonisti della guerra al narcotraffico iniziata nel 2006 dal presidente Felipe Calderón, che ha fatto almeno 60 mila morti e decine di migliaia di dispersi. Guzmán era stato ri-arrestato nel febbraio del 2014, e la sua cattura era stata applaudita come un successo internazionale per il nuovo presidente Enrique Peña Nieto. Ma dopo poco più di un anno trascorso nel carcere di massima sicurezza di Altiplano, Guzmán è fuggito di nuovo l’11 luglio dell’anno scorso, se possibile in un modo ancora più avventuroso. Grazie alla compiacenza delle guardie e dei dirigenti del carcere, i suoi uomini hanno scavato per mesi un lungo tunnel che dalla doccia della cella del capo sbucava comodamente in un edificio fuori dalla prigione. La seconda fuga di Guzmán è stata un’umiliazione nazionale per il Messico, e un fallimento politico colossale per Peña Nieto, che ha visto franare la sua strategia di sicurezza in un periodo di particolare debolezza economica per il paese. Da quel momento riprendere il narcos è diventata una priorità assoluta per il governo di Città del Messico, che ha speso uomini e mezzi e ha provocato sparatorie, agguati, perquisizioni in tutto il nord-ovest del paese.
Ora che Guzmán è tornato nelle mani del governo, si pone il problema dell’estradizione negli Stati Uniti. Washington la chiede da anni, insistendo sul fatto che nelle carceri americane, privo delle sue connessioni, Guzmán non sarebbe più in grado di evadere o di gestire i suoi affari criminali da lontano. I messicani finora si sono sempre negati, per orgoglio e per strategia politica. Ma alcune estradizioni recenti, tra cui quella del narcos Édgar Valdez Villareal, mostrano che forse la grande umiliazione di luglio ha fatto cambiare idea al governo.