Fortuna che c'è l'Oman a mediare nella guerra infra-islamica
Milano. Il sultanato dell’Oman “è vicino” agli altri paesi del Golfo, in questo momento di tensione con l’Iran. Così Yusuf bin Alawi, ministro degli Esteri della piccola nazione araba, ha descritto la posizione del suo governo sulla crisi in corso, mentre altri suoi vicini, Kuwait, Emirati Arabi Uniti e, da ieri, anche il Qatar, hanno seguito l’alleato saudita e ritirato le proprie missioni diplomatiche da Teheran. Non è la prima volta che il sultanato meta delle vacanze dei ricchi occidentali, spesso invisibile nelle cronache turbolente della regione, prende una posizione diversa da quella della grande madre saudita, potente leader del Gcc, il Consiglio per la cooperazione del Golfo, che riunisce tutti i paesi dell’area, e che si incontrerà in emergenza sulla crisi con l’Iran sabato. A marzo, quando Riad ha iniziato in Yemen l’operazione militare Decisive Storm contro i ribelli sciiti Houthi sostenuti da Teheran, appoggiando l’ex presidente Ali Abdallah Saleh, tutti gli alleati del Golfo e altri paesi arabi hanno risposto alla chiamata alle armi. Tranne l’Oman. E poche settimane fa, quando la monarchia dei Saud ha annunciato la nascita di una coalizione islamica di 34 nazioni contro l’estremismo, con obiettivi militari, ancora una volta Muscat ha deciso di rimanerne fuori. Questa neutralità, coltivata con sapienza dal 74enne sultano Qaboos, e le buone relazioni che l’Oman intrattiene con il suo instabile vicinato, hanno amplificato il ruolo di mediatore della piccola nazione, con una cruciale posizione strategica.
L’Oman è alleato dei potentati sunniti, ma ha relazioni cordiali e attive con il loro indiscusso rivale, l’Iran, con il quale condivide lo sbocco sul vitale stretto di Hormuz, porta del Golfo Persico attraverso il quale viaggia il 30 per cento del petrolio commerciato via mare, secondo il Wall Street Journal. “L’Oman si considera vulnerabile perché è un piccolo paese in mezzo a troppi problemi, come lo Yemen al sud, il Pakistan al nord, l’Iran al nord e l’Arabia Saudita – ha spiegato a settembre Marc Valeri, direttore del Center for Gulf Studies dell’università britannica di Exeter all’Associated Press – Questa vulnerabilità li porta a essere amichevoli con le altre parti”.
Il più citato successo diplomatico di Muscat è arrivato quando, dopo aver operato per la liberazione di tre escursionisti americani detenuti in Iran, ha ospitato dal 2012 colloqui tra funzionari di Teheran e Washington – le relazioni diplomatiche tra le due capitali erano interrotte dal 1979, anno della Rivoluzione islamica – che hanno aperto la strada ai negoziati sul nucleare culminati a luglio 2015 con uno storico accordo. La neutralità del sultanato nel conflitto potrebbe ora tornare utile all’Arabia Saudita nella crisi diplomatica con l’Iran e nel conflitto militare in Yemen. Come ha scritto a dicembre il sito al Monitor, il regno si trova invischiato in una costosa operazione militare in Yemen – che non sta portando risultati – proprio in un momento in cui il crollo del prezzo del petrolio mette in difficoltà le casse del paese. L’attivismo di Muscat ha portato ad agosto alla liberazione di un ostaggio francese e in settembre di tre cittadini sauditi, due americani, un britannico detenuti dagli Houthi a Sanaa. E alla corte del sultano si sono incontrati negli ultimi mesi rappresentanti di tutte le parti direttamente o indirettamente coinvolte: ribelli, funzionari del GCC e del dipartimento di Stato americano, il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif, l’inviato per lo Yemen delle Nazioni Unite, Ismail Ould Cheikh Ahmed, gli uomini vicini all’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh.
L’Oman ha provato anche a mediare nella crisi siriana. Unico stato del Golfo a non aver rotto le relazioni diplomatiche con il regime di Bashar el Assad, il suo attivo ministro degli Esteri, Yusuf bin Alawi, ha incontrato a ottobre il rais siriano dopo che ad agosto il capo dell’isolata diplomazia di Damasco, Walid al Muallem, era stato in viaggio a Muscat. I buoni rapporti di vicinato del sultano Qaboos danno dunque ora al paese un serio potere di mediazione in una delle crisi regionali più profonde degli ultimi anni, quella tra la sunnita Arabia Saudita e l’Iran sciita.
[**Video_box_2**]L’Oman sembra aver scelto il ruolo di mediatore regionale, che gli conferisce prestigio internazionale e l’appoggio forte del segretario di Stato americano John Kerry, finito per questo in una controversia a dicembre. La stampa americana ha infatti riportato che il dipartimento di Stato, per mantenere i buoni rapporti e il potere di mediazione di Muscat, avrebbe soppresso un rapporto interno sul peggioramento del traffico di esseri umani e sulle condizioni degli immigrati in Oman. Come in altri paesi del Golfo, nel sultanato c’è una vasta popolazione di migranti in arrivo da nazioni come il Bangladesh e il Pakistan, impiegati soprattutto nel settore edile e spesso in pessime condizioni.
La vena diplomatica di Muscat non è legata soltanto alla ricerca di un ruolo forte sullo scacchiere regionale. Come già ricordato prima, l’Oman è un piccolo paese di quattro milioni di abitanti, incastrato tra nazioni spesso all’origine di instabilità. Con un’economia meno legata alle risorse energetiche di cui sono ricchi i suoi vicini e incentrata anche sul turismo straniero, per la nazione l’equilibrio della regione è fondamentale per la tenuta del regno, in cui si profila anche il dilemma della successione all’anziano Qaboos. Il sultanato condivide circa 300 chilometri di frontiera con lo Yemen in guerra. Mahra, storica regione yemenita lungo questo confine, è diventata il rifugio di centinaia di famiglie di sfollati. Il governo centrale teme che il flusso di migranti possa irrobustirsi ed è preoccupato dalla possibile infiltrazione di gruppi estremisti. Dall’altra parte del confine, in Oman, la regione del Dhofar, storicamente trascurata dal governo centrale, ha già dato vita – tra gli anni 60 e 70 – a un’insurrezione di stampo marxista contro il potere centrale, annientata anche grazie all’intervento dell’Iran.