L'inferno di Raqqa negli occhi di una dissidente lasciata in pasto all'Isis
Roma. La vita quotidiana all’inferno vista dal punto più tenebroso dell’inferno, e la città siriana di Raqqa, tristemente nota come “capitale” del Califfato, che a sprazzi emerge dall’oscurità nelle cronache clandestine di un gruppo di “citizen journalist”, ex studenti ed ex attivisti anti Assad che da quasi due anni, stretti tra il pericolo dell’Isis e quello del regime, lanciano dal web messaggi nella bottiglia. Postano video, foto e resoconti sul sito di “Raqqa is being slaughtered silently”, nascondendosi nella città-quartier generale dell’Isis, “massacrata nel silenzio”. Lo fanno sapendo che cosa potrebbe succedere, come lo sapeva la loro amica e citizen journalist Raqia Hassan Mohammed, trentenne giustiziata dall’Isis come “spia” qualche mese fa (ma la notizia è stata data ufficialmente dai miliziani soltanto il 2 gennaio scorso). Non possono parlare, gli attivisti che si autodefiniscono “non violenti”. Non possono essere una “Radio Londra” (anche chi vuole ribellarsi, in città, non ha la forza per farlo), ma, sotto i bombardamenti, e sotto la continua minaccia di essere torturati e uccisi, sperano che la propagazione via internet di immagini e parole possa facilitare il ritorno a quella che, come ha scritto uno di loro il giorno di Natale, era la vita “meravigliosa” di prima. Cioè la vita di quando gli ex ribelli di Raqqa, anche troppo “sognatori”, come scriveva Raqia prima di essere uccisa, pensavano di essersi liberati dalla morsa del regime, senza sapere di essere già nel gorgo della furia politico-religiosa dell’Isis. E a Capodanno gli attivisti di “Raqqa is being slaughtered silently” hanno postato il loro resoconto del 2015, elenco scarno delle atrocità intervallato da piccoli, impercettibili segnali di speranza (per esempio gli insegnanti che riescono a sottrarsi all’obbligo di rivedere i programmi in conformità alle direttive dell’Isis, che vorrebbe trasformare le scuole in campi di reclutamento per giovanissimi kamikaze).
C’è, nelle cronache degli amici di Raqqia, che non lavorava con loro ma che, come loro, raccontava le allucinanti giornate in città ai tempi del Califfato, tutto il rimpianto per un mondo che per qualche mese era sembrato a portata di mano, e tutto lo sgomento per la brutta fine dell’illusione. Ma c’è anche lo sguardo non rassegnato di chi vede gli uomini costretti a farsi crescere la barba e le donne costrette a tre strati di velo nero e ai matrimoni forzati, e la forza della disperazione di chi ha provato sulla sua pelle il terrore di finire giustiziato in piazza per una parola di troppo o per capriccio di un miliziano. “Tutto sembra normale uscendo di casa…”, scrive un attivista, “ma è solo un momento prima che la differenza si manifesti”, un attimo sospeso tra la sensazione rassicurante della routine che riprende e il successivo brutale ritorno alla realtà, tra enormi tadzebao del Califfato e paura che succeda qualcosa ai propri familiari mentre si cerca di fuggire dalla città dove ormai si vive braccati e bloccati, previa confisca del passaporto (con obbligo di firma). “La vita a Raqqa è sottosopra”, scrive un altro attivista che ricorda quando in città, per i festival, accorrevano “studenti da tutta la Siria”, e magari si aveva ancora la forza di scherzare perché quelli, i “turisti”, pensavano che gli abitanti di Raqqa “vivessero nelle tende come beduini del deserto”, mentre ora chi scherza più, se un unico lamento per un pomodoro troppo caro può costare l’arresto e magari la vita? Non c’è luce, non c’è gas, dicono i citizen journalist, ma c’è la consapevolezza che anche una goccia di contropropaganda può essere importante per resistere alla distopia dell’Isis, gonfiata da immagini terrificanti. A questo i blogger oppongono la crudezza di altre immagini – rubate, non pilotate – come il video in cui un’anziana donna viene giustiziata per adulterio mentre va al mercato, preoccupata e incredula, come gli altri civili che ormai, al mattino, sperano di non avere nessun buon motivo per uscire di casa.
Crepe nell'“area Putin-Erdogan”