Nel vuoto obamiano, Israele si prepara a un Putin egemone in medioriente
Con il titolo “Requiem for a Failed Foreign Policy”, Noah Rothman, sul numero del 4 gennaio della rivista americana Commentary, ha battezzato il definitivo fallimento della politica estera di Barack Obama, con particolare riferimento al medio oriente. E, nell’ultimo fascicolo della Jewish Review of Books, Ron Tira parla esplicitamente della necessità di una “Israeli Strategy for a New Middle East”. Si tratta, per Israele, di una conseguenza politica inderogabile, anche se è difficile per ora dire con certezza quali saranno i caratteri politico-istituzionali del nuovo medio oriente e perciò quali dovranno essere gli adeguamenti strategici di Israele. Fatto sta che nel marasma mediorientale, cioè nel cuore del medio oriente arabo, Israele è l’unico stato robustamente inserito nello scenario della regione. E lo è dal punto di vista politico, economico, sociale, internazionale. Se si guarda a tutti gli avvenimenti che stanno stravolgendo il mondo arabo circostante, Israele può ritenersi soddisfatto per tutto ciò che ha conquistato nel corso della sua breve e tormentata esistenza.
Ma questa è solo una parte dell’analisi. Nella crisi dell’area, che ha cancellato definitivamente il medio oriente per come l’abbiamo conosciuto dalla fine della Seconda guerra mondiale, un solo dato resta certo e immutabile, così definito in innumerevoli analisi che si sono susseguite nel corso dei decenni: “Il fine primario di Israele nella sua azione militare è sempre quello di difendere se stesso. Ma nel proteggere se stesso, spesso finisce per proteggere l’Occidente, e, se fallisce nel proteggere se stesso, spesso mette a rischio il resto dell’Occidente”. Così Evelyn Gordon su Commentary del 5 dicembre scorso. Tuttavia, se questo concetto è indiscutibile nella sua prima parte, oggi sembra invece traballante nella seconda. Infatti, può avvenire – anzi, sta avvenendo – il contrario. L’incapacità dell’Europa di sviluppare una coerente politica mediorientale è da tempo scontata, ma è soprattutto la politica imbelle degli Stati Uniti, sotto la direzione di Obama, a capovolgere i termini del problema. Ora, non è più Israele, se dovesse fallire, a mettere a repentaglio l’occidente, è invece il fallimento dell’occidente, e degli Stati Uniti obamiani in particolare, nell’elaborare e attuare una coerente politica per l’area, a porre a rischio Israele.
Dopo la dissoluzione dell’impero sovietico, per qualche anno si è parlato di un “Grande Medio Oriente”, comprendente le nuove repubbliche islamiche turcofone dell’Asia centrale, cui gli Stati Uniti hanno guardato con molta attenzione al fine di creare avamposti filoamericani in un’immensa area fino ad allora interdetta alla politica di Washington. Allo stesso modo, la Turchia aveva attivato una politica di avvicinamento alle nuove realtà indipendenti. Anche Israele si attivò in questo senso. In realtà, quello che è accaduto nel corso degli anni è stata una nuova edizione del tentativo di Mosca di riprendere in mano i fili di una vasta politica centro-asiatica. Tentativo complessivamente riuscito.
Stabilizzata quella regione, per mezzo di una robusta compagine di dittatori opportunamente controllati, o quantomeno non ostili – come nel caso di Nazarbayev del Kazakistan, dove il forte sviluppo economico non collide con gli interessi del presidente Vladimir Putin verso quella nazione di grandissima estensione territoriale nel cuore dell’Asia centrale –, con le “primavere arabe” si pensava che il medio oriente propriamente detto avrebbe ripreso a essere, con vesti nuove, uno dei centri della politica internazionale, anche se Israele non si era mai fatto illusioni su processi democratici nel mondo arabo che consentissero la fine dell’ostilità nei suoi confronti.
Nel suo libro “World Order”, Kissinger lo ha detto chiaramente: “Il riconoscimento diplomatico di Israele porrà fine nei media, nel mondo politico e nel sistema educativo dei paesi arabi alla campagna che presenta Israele come un intruso illegittimo, imperialista, quasi criminale nella regione?”. La risposta di Kissinger è scontata: “Israele e i suoi vicini presentano differenze incolmabili dal punto di vista geografico e storico”. E così sarà sempre. Perciò, falliti anche i deboli tentativi democratici degli scorsi anni, Israele è ora al centro di una regione in cui il condominio russo-iraniano pone a Gerusalemme questioni di diversa natura. Si tratta di un vero condominio?
[**Video_box_2**]La telefonata Palazzo Chigi-Cremlino
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu si è premurato subito di ottenere assicurazioni da parte di Putin e di stabilire con la Russia una relazione positiva, quasi a costituirsi un appoggio sicuro di fronte alla minaccia iraniana. Del resto, la politica di Putin verso la regione ha fondamenti ben più solidi rispetto alle ambizioni di Teheran. Giovedì scorso, sul Financial Times, si descriveva l’avanzata delle forze di Assad, con la copertura dei bombardamenti russi, in alcune città del sud del paese in mano ai ribelli; il quotidiano della City registrava perciò le preoccupazioni di alcuni analisti sul possibile nuovo avvicinamento anche delle milizie degli hezbollah iraniani al confine con Giordania e Israele. Altre voci raccolte confermavano tuttavia che Putin – che ieri in un colloquio telefonico con il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, proprio di Siria, tensioni tra Arabia Saudita e Iran, lotta al terrorismo internazionale e scenari energetici ha discusso – non ha alcun interesse a permettere che Israele sia minacciato nella sua esistenza dall’Iran. E questo, per un semplice motivo: perché un attacco iraniano a Israele, in qualunque forma possa essere scatenato, rimetterebbe in gioco gli Stati Uniti nello scenario mediorientale. Oggi, Israele non è più, come nel passato, uno strategic asset degli Stati Uniti nella regione, semplicemente perché gli Stati Uniti sono assenti dalla regione. Almeno fino al momento in cui Obama lascerà la Casa Bianca, momento che Israele attende con ansia per riprendere, eventualmente, un discorso interrotto nei due mandati presidenziali di Obama. Né, tantomeno, è pensabile che la Russia di Putin possa sostituire Washington in questo ruolo. Ma tutto è possibile in una regione che oggi è preda di una grande volatilità politica. Il solo dato certo è che la Russia di Putin ambisce a divenire la potenza egemone nel medio oriente, rovesciando, per una sorta di nemesi storica, la situazione che si creò dopo l’ennesima disfatta araba nella guerra dello Yom Kippur, alla fine della quale gli Stati Uniti erano divenuti, incontrastati, l’ago della bilancia nella situazione politica della regione, grazie anche al cambio di alleanze da parte dell’egiziano Sadat.
Ma ora il medio oriente non esiste più nella sua tradizionale configurazione statuale. Qui entra in ballo uno dei concetti-cardine delle relazioni internazionali: il “vuoto” politico-strategico, che Israele teme sopra ogni cosa. Chi riempirà il vuoto che si sta creando nella regione? Putin, come si è detto, potrebbe essere il principale candidato. Putin è l’erede di una grande potenza globale come l’Unione sovietica e la sua cultura politica è tuttora legata a quella visione. Il suo fine è di rilanciare la Russia nello scenario internazionale e il medio oriente sembra oggi l’area ideale di una politica di espansione politica. Putin opera a tutto campo una politica di potenza nel senso classico della parola. Il vuoto politico mediorientale è oggi lo scenario più confacente a una politica di potenza. Sembra averlo compreso prontamente l’opinione pubblica israeliana, che ha eletto Putin “uomo dell’anno 2015” (Jerusalem Post). Se così dovesse accadere, paradossalmente Israele non dovrebbe temere per la sua esistenza. Se la Russia dovesse divenire la potenza egemone nel medio oriente (cosa che è impossibile per l’Iran, in ragione del conflitto mortale fra sciiti e sunniti, come i fatti recenti tra Iran e Arabia Saudita stanno dimostrando), mai potrebbe mettere a rischio la sua egemonia permettendo ad una qualsiasi forza islamica di minacciare Israele. La politica di Putin verso l’area si configurerebbe in termini di consolidamento dello status quo; in questo, il ragionamento di Putin avrebbe la classica consistenza della visione delle relazioni internazionali tipica della Guerra fredda: conservare e stabilizzare ciò che è stato conquistato. Ma prima di giungere a questi esiti, occorre mettere in rilievo – come giustamente fa Ron Tira – che “il fatto sorprendente è che lo status quo è oggi difeso da una coalizione de facto composta da Israele, Egitto, Arabia Saudita, Giordania”. Troppo poco per contrastare, non dico le ambizioni dell’Iran – che non ha possibilità oggettiva di esercitare un ruolo egemonico nella regione – ma per la stessa Russia, che, dal punto di vista politico e religioso, ha le mani libere per giocare una partita estremamente ambiziosa che nel passato non era riuscita né all’impero zarista né all’Unione Sovietica: egemonizzare una sterminata regione che va dal Mediterraneo all’iceano Indiano, attraverso il mar Rosso e il Golfo persico, i “mari caldi”, nella definizione dei politici zaristi.
Israele non può permettersi il lusso di contrastare le ambizioni della Russia. Al contrario, deve sperare che la Russia eserciti una funzione stabilizzante in un contesto sconvolto dal terrorismo islamista. Se questo vorrà dire che Assad resterà in piedi in Siria, sotto tutela russa, ciò non potrà che andar bene a Gerusalemme, purché il dittatore siriano cessi di minacciare Israele. Si potrebbe veramente profilare una situazione finora inverosimile: che la Russia di Putin riesca a stabilizzare una regione attraverso una serie di tutele o rendendo positive le relazioni con gli altri paesi arabi. Fuori gli Stati Uniti, dentro la Russia: Israele potrebbe sentirsi sicuro in una nuova dimensione regionale con un nuovo attore protagonista.