L'arresto del "Chapo", lo scorso 9 gennaio (foto LaPresse)

Adesso la gran preoccupazione del Chapo è finire in America

Eugenio Cau
Il capo narcos è chiuso nella stessa prigione messicana da cui è fuggito, ma più che morire in battaglia teme l’estradizione

Roma. Joaquín “El Chapo” Guzmán, il più potente narcotrafficante del mondo, è rinchiuso da cinque giorni in una cella del carcere di massima sicurezza di Altiplano, in Messico, lo stesso da cui è fuggito con una evasione spettacolare lo scorso luglio. La cella è diversa – quella dell’altra volta, sghignazzano i messicani, è “in ristrutturazione” dopo che Guzmán le ha fatto scavare sotto un tunnel lungo un chilometro e mezzo per l’evasione –, ma il carcere è lo stesso, e il solo pensiero fa venire la pelle d’oca agli agenti della Dea, l’antidroga americana, che anche nell’ultima cattura, venerdì scorso all’alba, hanno contribuito con intelligence e forse forza militare.

 

Mentre l’attenzione del mondo si spostava sull’intervista di Sean Penn e sui particolari ormai sempre più chiari dell’arresto (Guzmán stava per scappare di nuovo attraverso le fognature sotterranee, ha rubato una macchina e con un suo luogotenente ha cercato di fuggire, ma è stato fermato da un blocco della polizia. Ai poliziotti, ha scritto ieri il giornale messicano Milenio, avrebbe offerto “imprese, case e affari” sufficienti per “dimenticarsi di lavorare per tutta la vita”, e si è arreso solo quando questi hanno rifiutato), lo stesso Guzmán e i suoi molti avvocati hanno avuto in mente un solo obiettivo fin dalle ore subito successive all’arresto: evitare l’estradizione negli Stati Uniti.

 


Il video, ottenuto dall'emittente tv messicana Televisa, dell'assalto della marina messicana alla casa di Los Mochis, Sinaloa, in cui si nascondeva Joaquín Guzmán. "El Chapo" è scappato attraverso le fognature, ed è stato catturato poco dopo


 

Washington desidera da tempo mettere le mani su Guzmán, e lo scorso 16 giugno, quando il capo narcos era ancora in prigione, ha formalizzato la richiesta di estradizione. Ne ha fatta un’altra il 31 di agosto, quando Guzmán ormai era evaso, ma fino a quel momento le autorità messicane avevano trattato con sufficienza le richieste statunitensi. L’allora procuratore generale Jesús Murillo Karam, nel gennaio 2015, disse che “‘El Chapo’ deve rimanere qui per completare la sua condanna, e poi concederò l’estradizione. Ci vorranno 300 o 400 anni, manca ancora molto”. Per i messicani negare l’estradizione negli Stati Uniti è una questione di orgoglio nazionale. Con che faccia annunci che una grande battaglia nella guerra alla droga è vinta se poi dai via il trofeo? Ma la vittoria si è trasformata in umiliazione a luglio, e grazie a un’attività di lobbying intensa da parte americana, della Dea e del procuratore generale Loretta Lynch, i messicani sembrano aver cambiato idea. Domenica notte, ora messicana, gli agenti dell’Interpol Messico hanno dato notifica a Guzmán e ai suoi avvocati di aver iniziato le pratiche per l’estradizione. Ci vorrà almeno un anno, dice la procura, fino a sei se gli avvocati di Guzmán daranno battaglia – è una lotta contro il tempo: l’ultima volta Guzmán ci ha messo meno di 18 mesi per fuggire, poco dopo l’arrivo della prima richiesta di estradizione.

 

[**Video_box_2**]I narcos, si dice, temono l’estradizione più della morte. Essere uccisi in battaglia fa parte del business, ed essere imprigionati nelle carceri di Messico o Colombia può essere perfino un intermezzo piacevole tra un’evasione e l’altra: le guardie sono facilmente corrompibili e a suon di mazzette la prigione può trasformarsi in un resort privato con chef di lusso e prostitute. Ma l’estradizione negli Stati Uniti, dove anche il più potente dei narcos è tagliato fuori dalla sua rete di contatti e di finanziamenti e trattato come un latino tra mille altri, è la fine definitiva. L’estradizione è il primo pensiero di ogni criminale braccato, per evitarla sono iniziate perfino delle guerre: il leggendario capo colombiano Pablo Escobar creò un gruppo apposito, Los Extraditables, e affrontò il governo di Bogotá quando questo approvò una legge che consentiva l’estradizione. Riuscì a evitarla fino all’ultimo, e morì in una sparatoria. “Ma il Chapo non è Pablo Escobar”, ha detto al Guardian Gilberto González, ex agente della Dea. “Lui non ha trovato la fine in una fiammata di gloria”. Fino alla prossima evasione.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.