Chi combatte davvero a Ramadi
C’è qualcosa che non va nella riconquista di Ramadi da parte dell’esercito iracheno. Prima però è necessario fare una premessa personale un po’ datata, di quelle che quando i nonni le raccontano ai nipotini quelli roteano gli occhi al cielo, e che qui serve a capire la situazione. Alla fine del 2007 ero a Ramadi e la città era stata liberata per la prima volta dallo Stato islamico – non era mai caduta in via ufficiale sotto il controllo del gruppo, ma a parte il palazzo del governo in centro, attaccato ogni giorno dagli islamisti, tutto il resto della città era stato per lungo tempo una cosiddetta “no go area”, un posto dove non puoi andare se non vuoi provocare una reazione ostile. Ero embedded con i soldati americani, l’unico modo realistico per lavorare in quella città e i soldati raccontavano che nei mesi precedenti facevano sempre questo calcolo: dal momento in cui i loro mezzi uscivano dai cancelli al momento in cui cominciava l’attacco armato il tempo massimo era quaranta minuti. Del resto un anno prima, a metà ottobre del 2006, lo Stato islamico aveva annunciato la sua nascita proprio a Ramadi, con una parata indisturbata avanti e indietro per il corso della città e sventolii di bandiere dai balconi. Allora e per un periodo breve i suoi uomini indossarono delle tute candide, che facevano un figurone nei video di allora – sgranati, mossi, tutt’altra cosa rispetto alle produzioni professionali di oggi – e poi tornarono presto alle divise nere, è probabile che lo abbiano fatto per praticità – la guerra è sporca per definizione.
Nel 2007, Ramadi ormai tolta allo Stato islamico mostrava tutti i segni della lotta: i muri erano crivellati di proiettili, le strade erano martoriate dalle trappole esplosive. Assieme a Rolla Scolari, inviata del Foglio, si era in un hotel trasformato in base dai marines (i marines erano considerati i più duri tra le unità mandate in Iraq e la zona violenta dell’Anbar, e quindi anche Ramadi che ne è la capitale, era stata assegnata loro). Non erano rimasti che la facciata e la tromba delle scale interna, senza manco più una ringhiera e si dormiva in una stanzetta al primo piano, così, anche per sfuggire alle attenzioni asfissianti delle reclute irachene (tra i teenager spossati e con mitra di Ramadi c’era aria di molestia sessuale parecchio prima delle primavere arabe e anche in mezzo ai nemici giurati del jihad). A dispetto dei combattimenti, Ramadi era rimasta in piedi. Le automobili circolavano su strade ormai sgombrate e ripulite. I negozi erano aperti. Ricordo che di mattina, da una postazione di cecchino sul tetto, vedevo i veli bianchi e le cartelle delle bambine che andavano a scuola. La guerra civile era passata per Ramadi e se ne stava andando. Era stata più, a vederla con gli occhi di oggi, un duello d’intelligence. I clan locali passavano agli americani gli indirizzi dei covi dei cattivi, le posizioni dei loro depositi di armi, dei posti dove tenevano le macchine.
Oggi a vedere le immagini che arrivano da Ramadi resta poco o nulla, la città è stata demolita. Tre giornalisti occidentali sono appena stati dentro, embedded con le truppe irachene: Ayman Oghanna per Vice News, Matt Bradley per il Wall Street Journal e Ben Hubbard del New York Times. Tutti e tre raccontano e filmano una città che è stata ripresa soltanto con una metodica opera di distruzione dall’una e dall’altra parte. Un paesaggio lunare, una città che in alcune aree non c’è più. Usano spesso questa parola inglese “leveled”: appiattita, nel senso di piallata.
Le tattiche di entrambi gli schieramenti durante la battaglia di Ramadi hanno fatto affidamento sulla demolizione – anzi: fanno affidamento, perché la battaglia sta continuando. Lo Stato islamico ha piazzato migliaia di trappole esplosive per rallentare l’avanzata dei soldati iracheni, per rendere penoso ogni loro avanzamento anche di pochi metri, torturati dal dubbio: sto per mettere il piede su una mina, sto per attivare il meccanismo di una trappola esplosiva? A marzo di quest’anno a Tikrit i soldati iracheni vicino al pennone di una bandiera hanno raccontato al Foglio che quelli dello Stato islamico avevano minato anche l’asta di una loro bandiera e l’avevano lasciata lì, come dimenticata nella fretta della ritirata: quando due soldati avevano fatto per toglierla, erano saltati in aria. Lo Stato islamico piazza mine dappertutto, per difendere gli edifici durante i combattimenti e per far pendere una maledizione sulla città, anche settimane dopo avere abbandonato le sue postazioni: il sospetto della presenza di una mina, innescata dall’apertura di un cancello o di una porta, dalla ruota di un mezzo o dal peso di un passo incombe su ogni edificio, su ogni cortile, angolo, cumulo di detriti, scarpata, cantina, incrocio. Per spostarsi senza essere visti, quelli dello Stato islamico praticano grandi aperture nelle pareti delle case – una tecnica consueta nella guerriglia di città – così possono attraversare una fila di edifici contigui senza mai uscire allo scoperto sotto l’occhio dei droni. E per i cecchini? Anche nel loro caso, si fanno fori nelle pareti per spiare i nemici e per sparare. Dopo mesi di questo trattamento, la città comincia a trasformarsi. Un video che il gruppo ha messo su Internet, tutto dedicato agli scontri di Ramadi, mostra i suoi uomini avanzare di soppiatto con l’acqua alle ginocchia in un vicolo ormai trasformato in una vasca dalle esplosioni che hanno tranciato le tubature dell’acqua.
Dall’altra parte gli iracheni in tandem con gli americani hanno una tattica offensiva che si basa sull’appoggio ravvicinato dei bombardieri. CAS, per chi apprezza il gergo, Close Air Support, una sigla con cui tocca ora familiarizzare perché è così che si combatte la guerra allo Stato islamico ora. L’America è passata attraverso l’età del drone, in cui la guerra al terrorismo si faceva spiando dall’alto i gruppi pericolosi nella loro routine quotidiana e lanciando bombardamenti sporadici quando c’era l’occasione – in Pakistan, in Yemen, in Somalia. Ora invece c’è il Cas : dal punto di vista politico funziona così, si trova un alleato sul terreno, come i curdi vicino a Mosul o gli iracheni a Ramadi, e gli si insegna a collaborare e a passare le coordinate via radio, garantendo ai boots on the ground (altrui) l’invincibilità dall’alto grazie alla protezione aerea. Sul campo funziona così: si avanza fino a quando non si incontra un posto di particolare resistenza, come un nido di mitragliatrice ben piazzato su un tetto, una linea di edifici infestata da cecchini, un palazzo con troppi sparatori e troppo ben coperti. A quel punto si prendono le coordinate, si chiamano gli americani e si aspetta che ci pensino loro. A Ramadi racconta Matt Bradely che c’è un ufficiale iracheno che parla inglese senz’accento, è stato addestrato dai militari americani alla scuola dei Ranger (un reparto speciale), mima persino il loro gergo. Arriva l’aereo e sgancia una bomba guidata di peso che varia a seconda del bersaglio (le più grandi sono 500 chilogrammi) che colpisce il punto indicato con un’approssimazione di meno di un metro, il posto salta in aria, i soldati si occupano delle resistenza residua, sminano un corridoio per avanzare, si passa all’edificio dopo. E così via, strike dopo strike, con pause per il cattivo tempo. Gli aerei della Coalizione hanno fatto seicento bombardamenti su Ramadi in sei mesi. E’ una versione della guerra al fianco di Zeus, s’invoca il fulmine che arriva dal cielo e stermina i nemici, ed è lontana dal duello per conquistare ogni giorno le simpatie degli iracheni che si consumava nello stesso posto un po’ meno di dieci anni fa. Quel tipo di guerra non si può più fare perché in questi anni lo Stato islamico s’è preso vendette terribili contro chi aveva collaborato con il governo centrale e con gli americani. Lo ha fatto con una campagna di omicidi, attentati, stragi minori che a malapena diventavano una notizia in Iraq, figurarsi al di fuori. Il risultato è che però si è estinta la volontà di combattere dei sunniti di Ramadi, non ci credono più, preferiscono per ora defilarsi. La mazzata finale sul loro volontà di combattere, e prova del loro convincimento che a mettersi contro lo Stato islamico si finisce male, è arrivata a maggio, quando dopo mesi di assedio il gruppo ha preso il controllo della città e ha bussato casa per casa per uccidere chi ha legami con il governo di Baghdad.
I bombardamenti americani a Ramadi non si fermano, questa è la traduzione della nota ufficiale del Pentagono di venerdì scorso: “Nelle ultime ventiquattr’ore, gli aerei da guerra hanno colpito sedici postazioni di combattimento dello Stato islamico, undici arsenali per la costruzione di bombe, tre aree utilizzate per le manovre e altri nidi di mitragliatrici e gruppi di combattenti”. Questo in una città che è stata dichiarata liberata dopo una vittoria contro il nemico due settimane fa, con il senso consueto del teatro che hanno le notizie in Iraq – ricordate “Bob”, il portavoce dell’esercito di Saddam Hussein che negava l’arrivo degli americani a Baghdad nel 2003? Con la differenza che questa volta il teatrino è fatto dalla nostra parte. Il primo ministro iracheno, Haider al Abadi, è sceso in elicottero in una zona circoscritta di Ramadi per festeggiare la riconquista davanti alle telecamere dei tg nazionali, ma secondo Alex de Mello, un esperto di sicurezza che lavora come consulente sull’Iraq, ci vorranno almeno sei mesi per vedere sei i soldati iracheni riescono a controllare la città. “Lo Stato islamico si muove in libertà nei terreni rurali attorno a Ramadi e li usa per fare incursioni dentro”.
Ora, il Wall Street Journal scrive che il grosso della battaglia è finito sulle spalle di un’unità d’elite di circa 550 uomini. Il nome ufficiale è Guardia Repubblicana Speciale, ma tutti in Iraq la conoscono come la Divisione dorata. Si riconoscono in tutti i video e le foto che arrivano da Ramadi perché sono quelli con l’uniforme tutta nera, elmetti leggeri e armi americane, a differenza degli altri soldati che hanno mimetiche e fucili d’assalto kalashnikov. Sono una copia esatta dei reparti speciali americani – anche se tutto è condito dal folklore marziale iracheno, per esempio nel 2012 è uscito un video patriottico con loro protagonisti che in occidente farebbe rizzare i capelli o ridere o entrambe le cose. Loro emulano gli istruttori americani, il resto dei soldati emula loro – oggi in Iraq si incontrano a ogni angolo militari che indossano magliette con il logo del gruppo (e anche berrettoni con scritto SWAT: l’importante è dare l’impressione di essere qualcosa di più di quello che si è).
Come dice il vice comandante della “Divisione”, Abdel Wahab al Saadi, il loro ruolo a Ramadi è un problema. In teoria sono un gruppo speciale, e invece oggi stanno reggendo sulle spalle il grosso dei combattimenti perché il resto dei reparti è considerato troppo inefficiente per stare nel mezzo della battaglia. “I nostri soldati hanno un anno di addestramento e sparano migliaia di proiettili ogni settimana”; gli altri, quelli regolari, sono addestrati per venti giorni e poi mandati in battaglia senza avere ancora nemmeno sparato. La Divisione dorata è stata l’ultima a ritirarsi a maggio, quando Ramadi è caduta in mano allo Stato islamico, mentre tutti gli altri reparti si erano già dileguati, replicando la grande diserzione di Mosul nel giugno 2014, quando nel giro di un giorno l’esercito si dissolse e scappò via, consegnando la seconda città del paese ad Abu Bakr al Baghdadi. Il Wall Street Journal dice che in questa battaglia l’esercito regolare, la polizia federale e i combattenti sunniti dei clan locali si sono tenuti ai margini – questa versione suona blasfema alle orecchie dei media iracheni, che tengono molto a dare un’idea di sforzo collettivo e corale di tutti per combattere i terroristi. Anzi, un rilievo particolare è dato ai sunniti dei clan, come dire: “Vedete? Sono loro stessi che combattono per liberarsi dal giogo dello Stato islamico”. E’ tutto da confermare. Ayman Oghanna, che ha girato video molto belli dal fronte di Ramadi, è appunto embedded anche lui con la Divisione dorata. Come dice un altro ufficiale al Wsj: “Se collassiamo noi, collassa tutto il paese”.
E’ impossibile non notare che 500 uomini per riprendere Ramadi dallo Stato islamico sono troppo pochi. Stanno guidando gli aerei americani e stanno spingendo indietro la prima linea nemica, ma questo modello può funzionare? Facciamo un paragone tra numeri: per mantenere la sicurezza all’ultimo derby Roma-Lazio all’Olimpico nel 2015 erano schierati 1.700 agenti di polizia. E non si è toccato un punto che è centrale in tutta la questione: l’attrito tra sciiti e sunniti. Le truppe sciite sono tenute lontane dal campo di battaglia perché la loro presenza scatena la diffidenza dei civili sunniti.
Una volta finita la campagna di Ramadi – se finirà – sarà la volta di Mosul, che è grande quattro volte tanto ed è assai più popolata, perché i mosulawi non hanno abbandonato in massa la città. Inoltre lo Stato islamico ha avuto un anno in più per trincerarsi, ha compiuto grandi lavori di scavo con bulldozer e compagnie edili, ha costruito un muro di cinta e – si dice – tunnel come nella Striscia di Gaza. Per ora nessuno parla di come radunare abbastanza soldati – e abbastanza affidabili – da poter anche soltanto pensare a un futuro assalto a Mosul. La cosa migliore sarebbe che gli abitanti si ribellassero, ma non c’è molto da contarci: quando c’erano gli americani la città fu quasi del tutto immune al fenomeno del Risveglio, vale a dire alla partecipazione volenterosa dei clan sunniti alla guerra contro lo Stato islamico, perché in quell’area i sunniti non sono una maggioranza netta, sono mescolati a curdi e turcomanni, nel caso migliore tendono a starsene sulle proprie e a vedere cosa succede. Ci sono stati dentro Mosul alcuni casi di azioni partigiane, contro l’occupazione estremista, atti di sabotaggio, video e pochi omicidi mirati di uomini dello Stato islamico che si sono fatti sorprendere da soli in qualche androne buio; ma nulla di più.
Se in Iraq c’è il modello Ramadi, in Siria il governo ha inaugurato il modello Homs, che è la terza città del paese: ha raggiunto una tregua con i ribelli armati, ha lasciato che salissero a bordo di autobus con le armi e con le famiglie e che si spostassero poco più a nord, in territorio controllato da altri ribelli. Una fila lunga di torpedoni verdi, con in testa alcuni veicoli bianchi delle Nazioni Unite a fare da garanti dell’accodo. Una differenza da notare: i ribelli non sono lo Stato islamico, c’era una possibilità di negoziato e c’erano vantaggi da entrambe le parti. Il governo non intendeva spendere altri uomini e mezzi per vincere l’assedio e riprendersi un pezzo della città – soffre già di carenza di manodopera militare, non può intraprendere battaglie troppo costose – e i ribelli si sono risparmiati una resistenza infernale fino all’ultimo uomo e all’ultimo proiettile. Anche questa soluzione, dipinta come esempio per tregue future, presenta problemi gravi. Ha funzionato a Homs, ma come si fa con tutto il resto del paese? Si caricano tutti gli antiassadisti su torpedoni verdi e li si sposta fuori dal raggio d’azione degli assadisti? Tutta l’area a est della capitale Damasco è in mano ai ribelli, l’ipotesi di trapiantarli altrove sembra irrealistica almeno tanto quanto l’ipotesi opposta e speculare, traslocare il pezzo di paese che sta con Assad (a proposito: il presidente russo Vladimir Putin dice in un’intervista pubblicata ieri sul giornale tedesco Bild che non avrebbe problemi a offrire asilo in Russia ad Assad, sarebbe meno difficile che ospitare il disertore della Nsa americana Edward Snowden come Mosca sta già facendo).
Se Ramadi e Homs non offrono soluzioni praticabili per tutto il paese, ma soltanto rimedi disperati per circostanze disperate, la chiave della soluzione continua a restare in mano ai sunniti. Se non si scrollano di dosso lo Stato islamico come fecero a partire dal 2006 in Iraq, Siria e Iraq continueranno a consumarsi in questo stallo militare tra terroristi, curdi, ribelli, aiuti esterni e governi che può protrarsi a tempo indefinito.
L'editoriale dell'elefantino