Realisti e idealisti criticano Obama allo stesso modo sulla Siria
Milano. Che cosa sarebbe accaduto, nel mondo, se gli Stati Uniti d’America si fossero attenuti, nel post Guerra fredda, a una politica estera puramente realista, invece che lasciare i liberal e i neocon “run the show”? Stephen Walt, commentatore super realista e con un tic anti israeliano incontenibile, pone questa domanda in un articolo su Foreign Policy, in cui spiega lungamente gli errori del cosiddetto idealismo – liberal e neocon uniti – e lo straordinario spazio che è stato concesso sui media agli idealisti, e conclude suggerendo ai principali quotidiani di informazione: date una rubrica a un realista (fa un elenco di papabili, omettendo se stesso, ma è solo una posa), di che cosa avete paura? Il gioco del “se fossimo stati realisti” per Walt si articola in sei punti: non ci sarebbe stata la guerra in Iraq del 2003; la Nato non si sarebbe allargata e la Russia oggi non sarebbe così belligerante; non ci sarebbe stato il “doppio contenimento simultaneo” di Iraq e Iran, “un realista avrebbe tratto vantaggio dalla loro mutuale rivalità”; non si sarebbe tentato il disastroso “nation building” in Afghanistan, né Barack Obama avrebbe fatto il “surge” fallimentare (Obama, per Walt, non è sufficientemente realista); il deal con l’Iran si sarebbe fatto prima; la “special relationship” con Israele non sarebbe stata così forte, ed essendo dannosa per entrambi i paesi, ci sarebbero stati benefici maggiori, magari persino uno stato palestinese.
L’articolo di Walt è stato ripreso e commentato: Roger Cohen, specificatamente tirato in causa, ieri ha risposto sul New York Times dicendo che la teoria realista si sfalda nel momento in cui si viene a creare un “moral case”, un obbligo morale a un intervento.
Negli ultimi venticinque anni, alcuni conflitti hanno fatto sì che il celebre motto realista “we don’t have a dog in this fight” fosse accantonato. Il Ruanda, i Balcani, i regime change degli anni Duemila e, per quel che concerne strettamente la presidenza Obama, la Siria. Cohen parla soprattutto dell’intervento nei Balcani, che raccontò come reporter e che Walt naturalmente non cita nel suo gioco del realismo, e scrive: “Individuare un interesse nazionale vitale in posti chiamati Omarska non era ovvio, pure se i conflitti lì mettevano a repentaglio quella pace europea che gli americani si erano impegnati a mantenere dal 1945. Da un punto di vista realista, la necessità di un intervento era inconsistente. Sarajevo non avrebbe spezzato l’America, o comunque meno di quanto Raqqa spezzerebbe l’America oggi. Ma l’obbligo morale, invece, era travolgente”. Che cosa sarebbe accaduto senza l’intervento internazionale nei Balcani? Walt non si pone la domanda perché la risposta probabilmente non asseconda il suo esercizio realista, ma prende in considerazione la Siria, che si configura come il “moral case” di questi anni.
Se solo il partito della realpolitik avesse avuto un peso, scrive Walt, Obama non avrebbe mai detto che Bashar el Assad “must go” né avrebbe mai segnato una “linea rossa”: “Per i realisti, l’obiettivo primario sarebbe stato mettere fine alla guerra civile velocemente, pure se questo avrebbe portato a patti con un tiranno brutale. Se Obama li avesse ascoltati anni fa, la guerra civile siriana sarebbe forse – ripeto: forse – finita prima che tante vite venissero sacrificate e che il paese si ritrovasse tanto spaccato”. Roger Cohen risponde che in realtà proprio il tentennamento in Siria ha mostrato i limiti del realismo della Casa Bianca, non tanto usare certe parole, quanto poi renderle del tutto inutili: “Il realismo ha imposto un non intervento mentre centinaia di migliaia di persone venivano uccise, milioni scappavano, e lo Stato islamico emergeva. Il realismo ha consentito di accettare la brutalità delle ‘barrel bombs’ di Assad”. L’interventismo è legato all’umanitarismo, ma come scrive Cohen “i realisti tendono a ignorare la sofferenza umana, è per loro il modo in cui va il mondo”.
[**Video_box_2**]Da qualsiasi punto si parta, che sia estremamente realista come Walt o moderatamente idealista come Cohen, la Siria rappresenta il discrimine della presidenza Obama. Michael Gerson, che ha scritto i discorsi di Bush jr nel primo mandato e si è occupato di “vendere” la campagna contro Saddam Hussein in Iraq presso l’opinione pubblica, ha scritto sul Washington Post che la gestione della politica estera, soprattutto in Siria, è stata quella più criticata soprattutto dai collaboratori del presidente, realisti, idealisti, pragmatici che fossero (nel gioco dei se, Gerson è brutale: se Obama fosse intervenuto in Siria, lo Stato islamico non ci sarebbe). “Molti ex funzionari dell’Amministrazione – scrive Gerson – dicono grandi cose sull’esperienza di Obama, sul suo stile deliberativo. Ma pensano che il presidente abbia sbagliato drammaticamente sulla questione più strategica e più umanitaria del nostro tempo”. L’ultimo in ordine di apparizione nella lista degli ex in polemica con Obama – che comprende nomi altisonanti come Hillary Clinton, gli ex segretari alla Difesa Chuck Hagel e Bob Gates, l’ex capo della Cia Leon Panetta – è Dennis Ross, inviato in Iran dell’Amministrazione Obama. Ross racconta sul magazine di Politico che a ogni riunione per discutere su cosa fare in Siria, il presidente chiedeva: “Tell me where this ends”. Domanda giusta, scrive Ross, ma mancava la domanda-corollario: ditemi, che cosa accade se non facciamo nulla? Secondo il diplomatico di formazione clintoniana, Obama guardava la Siria e vedeva l’Iraq, e questo ha frenato ogni sua strategia: “Un vuoto si è creato non cercando di sostituire Assad, ma nell’esitazione di fare qualcosa di più che offrire dichiarazioni – che in effetti significa trarre troppe conseguenze dalla lezione irachena. Il vuoto è stato riempito da altri: Iran, Hezbollah e altre forze legate all’Iran; Arabia Saudita, Turchia, Qatar; Russia; Stato islamico. Se gli Stati Uniti non fanno qualcosa di più per riempire il vuoto ora, la situazione finirà ancora più fuori controllo”.
Il tentennamento tra vaghe pulsioni idealiste e solidi convincimenti realisti è quel che caratterizza la politica estera obamiana (è il motivo per cui Walt non definisce Obama realista, essendo uno che, nelle sue tante evoluzioni from behind, ha voluto il regime change di Muammar Gheddafi in Libia). Nel numero del magazine di Politico dedicato interamente a Obama e ai suoi otto anni alla Casa Bianca, Michael Crowley scrive un articolo durissimo in cui racconta come questa Amministrazione sia capitolata di fronte ai dittatori: prende a esempio il rapporto con l’Egitto, prima il tentennamento su Hosni Mubarak, poi la luna di miele con i Fratelli musulmani, poi il golpe-ma-non-chiamatelo-golpe dei generali, poi il rapporto con l’attuale presidente Sisi. Come dice l’onnipresente capo della sicurezza nazionale, Ben Rhodes, “siamo in quell’angolo dolce in cui tutti ce l’hanno con noi”. Che è un po’ la sintesi dell’intera politica estera obamiana, quella in cui devi scegliere se preferisci Vladimir Putin o Recep Tayyip Erdogan, gli sciiti o i sunniti, l’Iran o l’Arabia Saudita. Realista? Forse solo pessimista, come dice Walt: i realisti “hanno generalmente una visione pessimistica degli affari internazionali e non sono d’accordo con la ricostruzione del mondo seguendo impostazioni ideologiche”. Non c’è motore più forte del pessimismo, nelle relazioni internazionali come in quelle personali, quando non ci si vuole muovere in alcuna direzione.