Cosa allontana la Turchia dalla Nato e dall'Europa
Commentando da par suo le ambiguità della politica mediorientale della Turchia, lo scorso 24 novembre il politologo americano Edward Luttwak ha posto apertamente in dubbio l’esistenza di un interesse occidentale a mantenere Ankara nella Nato, auspicandone l’espulsione. Si tratta di una provocazione, ma questa posizione è di certo condivisa da molti cittadini europei che osservano sgomenti l’arretramento delle libertà godute dai turchi e l’approccio unilaterale adottato dal presidente Recep Tayyip Erdogan nel definire gli obiettivi politici del suo paese. Quanto sta accadendo è tuttavia il risultato di un processo di lungo periodo, che sta trasformando l’identità geopolitica della Turchia per riproporla nelle vesti di una grande potenza mondiale. L’attuale dirigenza turca ritiene infatti che la fine della Guerra fredda abbia fatto venire meno i vincoli che avevano costretto Ankara a moderare in modo innaturale le proprie aspirazioni, reintegrandone la naturale “profondità strategica”. E si è conseguentemente persuasa che i turchi abbiano finalmente avuto l’occasione storica di ritrovare se stessi. La scomparsa dell’Unione sovietica ha eliminato la più grave minaccia che gravava sulla loro sicurezza nazionale e ha permesso di immaginare il ripristino degli antichi collegamenti con i popoli di lingua turca dell’Asia centrale. Parallelamente, è scemata l’importanza annessa alla prospettiva dell’integrazione europea. L’Europa è diventata meno attraente per ampie parti della popolazione anatolica, che ormai respingono l’idea di abitare in una marca di frontiera dell’occidente, sentendosi invece al centro di un vasto spazio che va dalla Mongolia al Corno d’Africa. E ha fatto proseliti la convinzione che lo sfruttamento dell’islam politico abbia reso fattibile la restaurazione di un potere di natura imperiale sul Bosforo.
L’autopercezione dei turchi differisce quindi fortemente dal concetto che noi ci siamo fatti di loro. Ma al di là delle incomprensioni che la riguardano, sull’immagine della Turchia pesano oggi soprattutto tre fattori: innanzitutto, il fatto che Ankara abbia tentato più volte di provocare un intervento militare occidentale nella guerra civile siriana, senza peraltro riuscirci: comportamento che evidenzia il punto al quale è giunta la divaricazione tra gli interessi nazionali della Turchia e i nostri. Noi europei non vogliamo avventure, loro ci vanno a nozze. Sui turchi grava poi l’accusa infamante di aver agevolato l’emergere del sedicente Stato islamico, anche se l’attentato di Sultanahmet potrebbe presto ridimensionarne l’impatto. Infine, l’anno scorso le autorità di Ankara hanno esercitato forti pressioni sull’Europa, riversandovi masse di profughi che hanno messo a dura prova la tenuta degli accordi di Schengen. Per attenuarle, in ambito Ue si è pensato di elargire tre miliardi di euro ad Ankara, offrendole altresì il rilancio del processo di adesione all’Europa comunitaria. Occorre però esser consapevoli che ai turchi non interessa più tanto l’entrata nella nostra Fortezza, un ambito asfittico rispetto alle loro attuali ambizioni, quanto garantirsi la permeabilità di tutta la regione balcanica alla propria influenza.
[**Video_box_2**]Recidere i lacci che ci legano ad Ankara, tanto a livello comunitario che atlantico, appare in ogni caso arduo. Intanto, perché l’Ue può essere condizionata in vario modo dalla Turchia. Alla Nato, invece, lo impedirà non solo il fatto che il trattato istitutivo non contempli l’ipotesi di un’espulsione, ma anche il diverso parere di Washington. Gli americani infatti desiderano comunque frenare la deriva mediorientale di Ankara, mantenendone saldo l’aggancio all’occidente: e a questo scopo l’appartenenza della Turchia all’Alleanza risulta indispensabile almeno quanto la forte autonomia curdo-siriana cui l’Amministrazione Obama sta pensando.