Caro Chapo ti scrivo. La fenomenologia di un narcos attraverso i suoi sms
Roma. 25 settembre: “Come si chiama questo attore? – Sean Penn. Quello che ha fatto il film ‘21 grammi’. – 21 grammi. Di che anno è? – Sto controllando”. 26 settembre: “Come si chiama il regista che verrà con la dama? – Sean Penn… – Lo sto cercando su internet questo Sean Penn. – Sì questo signore penso che prima fosse attore, adesso è scrittore e produttore. La dama dice che è più figo di quello che ha fatto il ‘Padrino’”. A Joaquín “El Chapo” Guzmán, il narcotrafficante più potente del mondo arrestato in Messico venerdì scorso in un’operazione della marina, il nome di Sean Penn proprio non entrava in mente. I due si sarebbero incontrati nel giro di un mese, nell’ottobre 2015, e la foto in cui si stringono la mano avrebbe tappezzato i media di tutto il mondo all’uscita del lunghissimo e inconcludente articolo di Rolling Stone in cui Penn racconta la sua avventura, tra domande fiacche ed episodi di meteorismo, alla corte del Chapo. Ma nelle conversazioni via chat (attraverso il sistema di messaggi dei Blackberry) intercettate dall’intelligence messicana e pubblicate due giorni fa dal giornale Milenio, Guzmán sembra interessato solo alla “dama”, Kate del Castillo, attrice di telenovele (nella più famosa interpreta una fascinosa narcotrafficante donna), tramite dell’intervista di Penn e grande passione del re della droga.
Amore platonico, perché Guzmán e del Castillo si incontreranno una volta sola (quella con Penn) ma si manderanno infiniti messaggi in cui il narcotrafficante sanguinario, responsabile di una buona fetta delle molte decine di migliaia di morti ammazzati in Messico negli ultimi dieci anni, si mostra paterno, rispettoso, timido. Quasi imbarazzato, come un rozzo campesino di fronte a una gran signora. I primi scambi di messaggi avvengono attraverso il telefono di un collaboratore, poi finalmente gli scagnozzi del capo consegnano a del Castillo un Blackberry, dopo una lunghissima discussione: il temibile narcos lo vorrebbe comprare di colore rosa (“rosita”, scrive, con il tic tutto messicano di usare vezzeggiativi per ogni cosa), e se non c’è rosa che sia argentato, perché serve un colore “adatto a una donna”. (Finisce che il Blackberry lo comprano grigio, e i suoi scagnozzi gli dicono che del Castillo potrà mettere delle cover colorate). Quando alla fine riesce a comunicare con la “dama”, il capo le chiede titubante a che ora può mandare messaggi “per non interromperla”, usa con lei frasi tipiche del padre premuroso con una figlia piccola (“Starò attento a te più che ai miei occhi”), le annuncia perfino che vorrebbe presentarla a sua madre. Lei accetta i complimenti e rilancia (“Ti confesso che mi sento protetta per la prima volta”).
Queste conversazioni, dicono adesso gli inquirenti messicani, sono servite a rintracciare Guzmán molto più che il tanto sbandierato incontro con Penn. Ma più ancora sono una fenomenologia inedita di uno dei più potenti e temuti narcotrafficanti di tutti i tempi. Che differenza con le conversazioni trucide intercettate ai mafiosi nostrani che riempiono i volumi di Saviano, e non perché Guzmán non sappia essere trucido: in quanto a violenza i narcos messicani portano a scuola tutti i criminali del mondo. Ma i miliardi di dollari, le apparizioni tra i ricchi di Forbes, la coscienza pesante di migliaia di morti sembrano essere passati senza effetto. Guzmán era a capo di un impero economico e criminale impressionante, chi lo ha incontrato (Penn compreso) racconta il suo carisma diabolico, ma la descrizione più attuale del gran narcos la diede lui stesso il giorno del suo primo arresto, nel 1993: “Sono solo un campesino”, disse.