Confessioni di un generale
Questo vi sembrerà strano”, dice il generale dei marine John Kelly, il generale in servizio da più tempo nell’esercito americano. “La mia più grande paura era che mi offrissero un altro lavoro”. Il generale a quattro stelle capo del Southern command lascerà il suo ultimo incarico oggi e si ritirerà alla fine del mese. In un’intervista esclusiva, Kelly ha parlato con la franchezza di chi ha passato 50 anni nell’esercito, passando dalla guerra in Vietnam a tre missioni in Iraq fino a gestire la prigione di Guantanamo, a Cuba. “Non sarò né più né meno onesto di quanto non sia stato per tutta la mia carriera”, dice con il suo accento di Boston. “Lo sono stato per molto, molto tempo”.
Kelly ha guidato le truppe americane nei giorni più violenti della guerra in Iraq nella provincia di Anbar, dove oggi l’esercito americano sta ancora una volta aiutando le forze armate irachene a cacciare lo Stato islamico quattro anni dopo la fine ufficiale della guerra. E’ stato assistente militare di livello senior dei segretari alla Difesa Robert Gates e Leon Panetta. Due suoi figli lo hanno seguito nei marines. Uno, Robert, è stato ucciso in Afghanistan nel 2010, facendo del generale l’ufficiale più alto in grado a perdere un figlio in combattimento dall’undici settembre.
Quando Kelly ha visitato l’ospedale militare Walter Reed e ha scritto lettere alle famiglie dei soldati morti sotto il suo comando in Iraq, dice che cercava di pensare cosa significasse perdere un figlio, per entrare più in sintonia. “Non puoi immaginare davvero cosa voglia dire finché non succede”, ha detto venerdì al suo ultimo briefing al Pentagono.
Per altri genitori in questa situazione, ha aggiunto, “penso che l’unica cosa che possano chiedere è che la causa per cui il loro figlio o la loro figlia sono caduti sia portata avanti fino a un esito favorevole, qualsiasi cosa voglia dire, e che non sia denigrata come ‘questo sta diventando troppo costoso’, o ‘è un problema troppo grande’, e ‘andiamocene e basta da là’”.
Durante la conferenza stampa un reporter, citando le perdite recenti di soldati americani in Afghanistan, ha fatto a Kelly la stessa domanda che spesso fanno alcune di queste famiglie: “Ne è valsa la pena?”. Lui ha risposto: “Questa domanda non è per me, è per lui”, dice, riferendosi a suo figlio Robert. “Lui ha dato la risposta”.
“E’ quasi impossibile per un uomo o una donna in uniforme non dare la propria opinione in maniera onesta… perché non si può prendere una buona decisione senza consigli sinceri”, dice Kelly a Defense One. Kelly dice che non ha mai esitato a dare questi consigli durante la presidenza di Barack Obama.
Kelly ha espresso disaccordo con l’Amministrazione Obama su Guantanamo, con la decisione di aprire tutte le posizioni di combattimento nell’esercito alle donne, nonostante l’obiezione dei marine, con il ritiro dall’Iraq, con la ginnastica retorica che i funzionari applicano per evitare di riconoscere che le truppe americane stanno di nuovo combattendo in medio oriente, nonostante le promesse di Obama.
“Se c’è un paese ed è pericoloso e noi mandiamo lì un soldato o una soldatessa americani, anche se ce n’è uno solo laggiù e non lascia mai la capitale, si tratta comunque di ‘boots on the ground’”, dice Kelly. “Facciamo uno sgarbo al sacrificio di queste persone, soprattutto di quelli uccisi, quando diciamo che non ci sono boots on the ground”.
Quando Kelly ha preso l’incarico al Southern command, un’area di responsabilità che comprende il “Cono sud” del Sudamerica fino ai confini del Messico dove gran parte dell’azione consiste in sequestri di droga, alcuni osservatori hanno pensato che questo lavoro di basso profilo fosse stato pensato per mettere da parte un generale troppo schietto. Ma Kelly ha spiegato: “Mi sono state date alcune opzioni. E io ero abbastanza stanco della guerra”. Il Southern command “mi avrebbe consentito di dedicarmi ad altre energie e talenti”.
Per anni Kelly ha chiesto al Congresso più finanziamenti per il Southcom. Nel luglio del 2014 disse a Defense One che “il quasi collasso delle società in quell’emisfero a causa del traffico della droga e del flusso di migranti” erano minacce esistenziali. “Non abbiamo molti asset”. Un numero crescente di paesi nella regione sta cercando mezzi per l’intelligence, la sorveglianza, il riconoscimento da altre parti, rivolgendosi a Israele, alla Russia e alla Cina per i droni.
Le guerre in medio oriente continuano a riguardare la sua regione, ma Kelly sostiene che le notizia per cui gruppi come lo Stato islamico stanno approfittando dell’instabilità per infiltrarsi negli Stati Uniti o nelle loro retrovie sono infondate. I funzionari hanno osservato un lieve incremento di reclute dirette in Siria – da un centinaio l’anno scorso a circa 150, dice Kelly – ma lui sminuisce il pericolo. La sua preoccupazione, ora, è l’incoraggiamento fatto dallo Stato islamico ai suoi miliziani a rimanere a casa, i cosiddetti attacchi dei “lupi solitari”. “Sembra che gli estremisti islamici e i terroristi abbiano modificato il loro messaggio, e che sia: “Ehi, anziché venire in Siria, perché non state a casa e organizzate San Bernardino, o Boston, o Fort Hood”, dice. “Anche pochi di questi pazzi possono creare un putiferio”.
Kelly ha avuto la responsabilità di gestire Guantanamo, una questione controversa a cui ha alluso dal suo podio al Pentagono venerdì. “Non faccio politica – non discuto se aprirlo o chiuderlo, o se andasse mai aperto”. Nega i report secondo cui lui e altri ufficiali dell’esercito avrebbero ostacolato la spinta del presidente a trasferire i detenuti e a chiudere il carcere. “E’ un insulto, francamente, nei confronti di un ufficiale militare o di un civil servant del Pentagono l’accusa che avremmo in qualche modo impedito l’applicazione di una scelta di policy, che questa ci trovi d’accordo o no”, dice. “Il mio unico ruolo nei trasferimenti è: datemi un nome, datemi un paese, datemi una finestra temporale e porterò la persona nel paese deciso”.
Kelly è stato favorevole al famigerato scambio di cinque talebani prigionieri per il sergente dell’esercito americano Bowe Bergdahl. Ha messo i detenuti su un aereo per il Qatar senza che i reporter presenti nella struttura se ne accorgessero. “Non ci hanno mai beccato”, dice. Kelly dice che lo scambio era “inusuale”, ma non ha mai messo in dubbio la sua legalità. “Non penso che nessuno, sicuramente in questo edificio, abbia mai infranto la legge”, dice.
Ma il generale ha anche ridimensionato alcuni argomenti chiave dell’Amministrazione sul perché Guantanamo dovrebbe essere chiuso: che il cosiddetto “peggio del peggio” dei prigionieri possa essere detenuto negli Stati Uniti, e che l’esistenza stessa della prigione sia una minaccia alla sicurezza nazionale e uno strumento per la propaganda.
“Bombardare alla grande lo Stato islamico in Iraq, Siria, Afghanistan, questo forse potrebbe irritarli più del fatto che teniamo Guantanamo aperto”, dice a Defense One. “Quello che tende a infastidirli è il fatto che stiamo detenendo dei prigionieri indefinitamente senza processo, non è l’esistenza di Gitmo. Se li mandiamo via, diciamo in una prigione negli Stati Uniti, continueremo a detenerli senza processo”.
I funzionari dell’Amministrazione Obama dicono che lo Stato islamico compie le esecuzioni degli ostaggi facendo indossare loro tute arancioni per mettere in scena una protesta contro Guantanamo. Kelly non è d’accordo: “Quello che vedo sono animali brutali che si comportano come animali”, e aggiunge che adesso i detenuti hanno tute beige. “Se ammazzano questi poveri ragazzi in tute arancioni e noi diciamo ‘ecco, vedi, questo è un buon esempio di come Gitmo…’ – questa è una stronzata, non penso si possa considerare giusto”.
Kelly dice che non sa se Guantanamo sarà chiuso il prossimo anno, definendo la questione una scelta “della leadership civile”. Ma se si decidesse che Guantanamo sarà chiuso, dice, dal punto di vista logistico non dovrebbe essere difficile, e i detenuti rimasti potrebbero essere detenuti negli Stati Uniti. “Non scapperanno di certo”. Ripetendo che non è un avvocato, ha aggiunto che se tutte le questione legate a spostare i detenuti sul suolo americano fossero state risolte “penso che sarebbe già stato fatto”.
Rispondendo alle critiche secondo cui i detenuti trasferiti negli altri paesi tornano a combattere, Kelly ha concluso il suo briefing: “Se tornano a combattere, probabilmente li uccideremo. Per cui è una cosa buona”. Per Kelly, una delle più grandi evoluzioni dell’esercito negli scorsi 15 anni è un cambiamento nel modo di risolvere i problemi: un approccio complessivo alla soluzione dei conflitti che va oltre “la semplice gestione meccanica”. Come Kelly ricorda, gli iracheni gli hanno dato un esempio: “‘Avete portato l’uomo sulla luna… com’è possibile che non possiate portarmi l’energia elettrica?’”. Benché questo cambiamento sia stato favorito anche da Obama, Kelly critica le decisioni prese in Iraq e Afghanistan, e ora la guerra contro lo Stato islamico. “Quando ho lasciato l’Iraq, i meccanismi dell’addestramento stavano per rompersi”, dice, e come i genitori dietro alla bicicletta di un bambino, l’America avrebbe potuto stare più vicina agli iracheni mentre imparavano a pedalare per conto proprio. “La guerra è difficile, e non è adatta a chi non è addestrato e adeguatamente preparato”, dice dell’Iraq di oggi. “Abbiamo ovviamente un’intera nuova guerra laggiù”.
[**Video_box_2**]Per quanto riguarda l’Afghanistan, dice anche che c’era bisogno di molta più forza militare. “Se decidi che bisogna fare in modo di non lasciargli nessuno scampo (ai talebani), poi però devi agire a livello sociale, economico, militare, politico per evitare che l’abbiano”.
“Alcune delle raccomandazioni fatte dai militari potrebbero essere disastrose secondo i parametri dei politici civili”, aggiunge. “Noi sappiamo come agire, ma spesso questo si traduce in missioni più costose e lunghe di quanto magari la nazione spererebbe”.
Il futuro della guerra richiede una strategia scelta caso per caso da un range di opzioni scelte dai politici e dal popolo che rappresentano, dice Kelly. “Se vuoi semplicemente provare a uccidere i leader di un’organizzazione nella speranza che questa si disintegri in qualche modo allora forse c’è l’opzione degli strike con i droni. Oppure posso mettere un milione di uomini e di donne sul terreno e possiamo ricostruire il paese e il governo e tutto il resto. Questo è lo spettro, politici, ditemi voi cosa fare”.
La convinzione appassionata di Kelly per cui l’esercito influisce in maniera positiva sul funzionamento del paese è tanto ovvia quando la sua rassegnazione verso i politici e la burocrazia. Tornerà nella Virginia del nord, ma spera di stare lontano da Washington. Qualcuno di recente gli ha chiesto cosa significherebbe per lui non essere di più un marine. “Sarò un marine per sempre”, ha risposto. “Vorrei continuare a dare il mio contributo. La mia più grande paura era che mi offrissero un qualche tipo di posizione full time in un’organizzazione per veterani o perfino nel governo… avrei preferito di no, vorrei evitare di dovermi presentare nei saloni di Washington tutti i giorni”.
Molly O’Toole è giornalista di Defense One
Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo-intervista apparso sul sito Defense One con il titolo “Here’s What America’s Longest-Serving General Most Fears”
Dalle piazze ai palazzi
Gli attacchi di Amsterdam trascinano i Paesi Bassi alla crisi di governo
Nella soffitta di Anne Frank