Dopo Giacarta
Che cosa si sa dei jihadisti bengalesi a Singapore
Ieri il primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong, ha rilanciato la notizia di 27 cittadini del Bangladesh, che lavoravano nel settore delle costruzioni, arrestati ed espulsi tra il 16 novembre e il 1 dicembre del 2015 ai sensi della legge sulla sicurezza interna dello stato di Singapore. Lee ha scritto che i presunti terroristi non stavano organizzando attentati contro Singapore, ma erano lo stesso una minaccia: “Stiamo inasprendo la nostra sicurezza, e agiamo per proteggere l’armonia razziale e religiosa. La radicalizzazione e il terrorismo non devono attecchire qui a Singapore”. Il primo ministro ha poi citato un lungo discorso del ministro dell’Interno di Singapore, K Shanmugam, che martedì scorso è intervenuto a un simposio davanti al mufti e all’arcivescovo di Singapore. Shanmugam ha detto: “Il governo deve vigilare. Sono necessarie leggi severe per evitare che le religioni vengano utilizzate per dividere. Dobbiamo inoltre garantire la libertà di tutti di praticare la propria religione. I leader religiosi devono capire la vera natura dell’ideologia terrorista, e usare messaggi chiari contro l’ideologia dello Stato islamico”. Il ministro ha fatto un discorso molto chiaro, spiegando che anche se la città-stato asiatica è sufficientemente sicura, “esiste una pericolosa tendenza” che riguarda alcuni giovani musulmani, per esempio, che preferirebbero impedire di celebrare il Natale. E’ per questo, secondo il ministro, che alcuni predicatori stranieri non sono autorizzati a parlare a Singapore: “Il governo non interferisce nella dottrina delle religioni. Ma deve proteggere l’armonia religiosa”.
Singapore è un hub molto frequentato, e per questo ultimamente altrettanto controllato, soprattutto per via della manodopera straniera del sudest asiatico. Dei ventisette bengalesi arrestati ed espulsi, ventisei facevano parte di un gruppo che, secondo le autorità, si riuniva almeno da un paio di anni come gruppo religioso chiuso. Un giovane si era unito a loro da poco. Secondo il ministero dell’Interno di Singapore i ventisette, tutti tra i 25 e i quarant’anni, risiedevano con un permesso di lavoro in varie zone della città-stato, ma si riunivano almeno una volta alla settimana nei locali di alcune moschee per parlare di come procurarsi le armi e come diffondere l’ideologia islamista. Secondo gli investigatori il gruppo sarebbe legato al nome di Anwar al-Awlaki, l’ingegnere di origini yemenite e leader di al Qaida ucciso nel 2011 da un drone americano, ma appoggerebbe anche l’ideologia dello Stato islamico e dei gruppi radicali bengalesi. I militanti della cellula progettavano attacchi in patria e contro il governo di Dacca. A fine novembre il giornale dello Stato islamico in lingua inglese, Dabiq, parlava del “ritorno del jihad nel Bengala” [leggi qui Perché il Bangladesh è diventato un campo di battaglia islamista].
Per evitare di attirare l’attenzione delle autorità, il membri del gruppo jihadista parlavano tra di loro in bengalese e si rivolgevano quasi esclusivamente a connazionali. Secondo alcune persone raggiunte dallo Straits Times, il gruppo distribuiva volantini per propagandare l’istituzione di un califfato islamico. “Un numero considerevole di materiale radicale e jihadista, come libri e video, inclusi filmati di bambini in addestramento”, sono stati trovati in possesso del gruppo. Nei computer sono state trovate copie del libro del 1989 dal titolo “21 modi per uccidere silenziosamente” di Hei Long. Nel 2011 il libro era stato trovato anche nel catalogo online di un inglese che vendeva, insieme, volumi di propaganda di al Qaida.