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Tutti a Ginevra, o forse no

Il tavolo di negoziato sulla Siria è già rotto. La lista dei problemi

Daniele Raineri
La data del 25 gennaio è in bilico, non c’è accordo sugli invitati. Gli obiettivi diplomatici e gli stravolgimenti tattici. Piccoli dettagli cruciali su quel che accade in Siria, a ovest e a est. Gli americani conquistano un aeroporto militare, rispuntano i missili Tow e Assad è blindato al suo posto

Roma. Da mesi la diplomazia internazionale sulla Siria è legata ai colloqui previsti a Ginevra per lunedì prossimo, il 25 gennaio: l’alibi dell’attendismo, nonostante i milioni di profughi e l’espansione libica dello Stato islamico, è questo tavolo di negoziato, i celebri “talks” di Ginevra, che non hanno mai ottenuto nulla, in cinque anni di guerra in Siria, e che pure vengono opportunisticamente trattati come salvifici. Fino a qualche giorno prima della data prevista – come oggi – quando i sostenitori stessi dell’iniziativa dicono: abbassate le aspettative. Ha cominciato l’inviato dell’Onu in Siria, il solerte Staffan de Mistura: Christiane Amanpour gli ha chiesto ieri “i colloqui inizieranno il 25?”, e lui: “Non so dirlo oggi, lo saprò il 24”, il giorno prima. Ha continuato il ministro degli Esteri russo, il granitico Sergei Lavrov: “Il processo politico inizierà, speriamo, il più presto possibile, alla fine di gennaio. Non sappiamo dire la data ora, ma seguiamo le raccomandazioni dell’inviato dell’Onu”. Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha ribadito: “Non tutto si muove in modo armonioso. Grandi disaccordi permangono sulla lista ‘bianca’ e su quella ‘nera’ degli invitati ai colloqui”. Il segretario di stato americano, l’indefesso John Kerry, non ha parlato esplicitamente di un possibile ritardo dell’incontro, ha fatto sapere, dopo aver incontrato ieri a Zurigo Lavrov, che si sta limando la lista degli invitati, ma che intanto è necessario far passare i convogli umanitari nelle città assediate della Siria, e ha chiesto ai russi di farsi garantire dal rais di Damasco, Bashar el Assad, almeno questo. In realtà è proprio Assad a determinare il possibile slittamento dell’incontro di Ginevra: dall’alto della sua strategia brutale “bomb and starvation”, bombe e fame, che ha fatto più di 250 mila morti in cinque anni, il dittatore siriano dice che non si può predisporre alcun colloquio diplomatico con chicchessia – intende con nessuno della cosiddetta “opposizione” – fino a che “il terrorismo” non sarà definitivamente distrutto. Al netto della tragica ironia, è il più potente tra gli argomenti di chi non ha interesse a tenere ora i colloqui del 25 gennaio.

 

Rapporti di forza (e di debolezza). Tra poco saranno quattro mesi di intervento russo in Siria e la situazione sul campo non è in sostanza cambiata. L’azione congiunta delle truppe del presidente Bashar el Assad, delle milizie sciite importate dall’Iraq, delle milizie locali siriane e dell’aviazione inviata da Mosca soffre della sindrome della coperta troppo corta: avanza in un posto e arretra in un altro. Vince contro i ribelli a ovest, sulla costa, tra le montagne di Latakia, e perde nel deserto, contro lo Stato islamico che ogni giorno rosicchia metri e cinge d’assedio la città di Deir Ezzor.

 

In questi quattro mesi ci sono stati stravolgimenti significativi dal punto di vista tattico, i turchi hanno abbattuto un jet di Mosca con ripercussioni dal punto di vista diplomatico, gli aerei stanno bombardando le vie dei rifornimenti dei ribelli e prendono di mira ogni singolo camion che attraversa il confine turco, sia quelli che portano cibo ai civili sia quelli che portano armi alle fazioni combattenti – inclusi i missili controcarro Tow di fabbricazione americana e acquistati a migliaia dalle potenze arabe del Golfo. A gennaio s’è registrato un brusco crollo del numero dei Tow sparati (è facile contarli, perché i ribelli girano un video per ogni missile sparato, in modo da renderne conto ai loro sponsor). Non si capisce se è un problema di logistica – gli aerei russi stanno strozzando i rifornimenti – oppure se è un ricatto degli sponsor che vogliono obbligare i gruppi a cessare i litigi tra fazioni nazionaliste e fazioni jihadiste, a trovare un accordo e a creare un fronte unico più o meno presentabile (arduo, a questo punto). Fatto sta che negli ultimi giorni i Tow sono rispuntati. Si ricomincia con la caccia incrociata, i bombardieri cercano i ribelli dall’alto, i ribelli cercano i carri armati da far saltare. Come scrive il Washington Post, l’impegno militare un effetto l’ha avuto, anche se non sul campo di battaglia: è chiaro che il presidente Assad è blindato al suo posto, dal punto di vista militare. Non ci sarà nessuna corsa lunga verso Damasco da parte dei gruppi che non sono lo Stato islamico, verrebbe spezzata dalle bombe. Ci saranno infinite guerricciole locali, fronti multipli, un logoramento reciproco e non è detto che siano i ribelli a durare più a lungo. In questa guerra di attrito, i civili stanno subendo perdite spaventose. E’ come se gli anno passati fossero stati un’anticipazione incompleta del disastro attuale.

 

Lo zar di Obama che si tura il naso. Il destino di Assad è quel che fin dall’inizio divide la coalizione a guida americana dalla coalizione a guida russa. L’Amministrazione Obama ha rinunciato ormai da tempo al “must go” immediato che inizialmente invocava, ora cerca di mettere una data di scadenza all’oppressione assadita, la fissa attorno al marzo del 2017. I russi e gli iraniani ridono sotto i baffi, un anno è tantissimo tempo, certo può bastare a togliere agli americani anche i rimasugli di volontà di destituire il dittatore di Damasco, soprattutto è sufficiente per organizzare un piano per Assad. Se Obama ha fretta di ottenere risultati spendibili in quest’ultimo anno di presidenza, le pressioni su un cambio di regime in Siria sono ormai pari a zero. L’arrivo di Robert Malley come “zar anti Stato islamico” di Obama non farà che ridurle. Politico ha dedicato un ritratto al consigliere dalle origini ebreo-siriane che doveva entrare nel team presidenziale già nel 2008, ma che fu estromesso perché considerato anti Israele: sostenitore del dialogo a tutti i costi, aveva incontrato esponenti di Hamas (faceva parte anche del team di negoziatori mediorientali di Bill Clinton, e ha sostenuto, contrariamente a molti altri presenti, che i colloqui di Camp David fallirono non perché i palestinesi se ne andarono nonostante la generosità delle offerte, ma perché gli americani avevano offerto troppo poco). Nonostante le critiche, oggi Malley è tornato, ed è lui ad aver convinto Obama che con Assad non bisogna avere fretta, che il “must go” non andava detto, oggi è meglio dimenticarlo. “Rob porta con sé una prospettiva di realpolitik – ha detto un ex collega dello zar a Politico – che ben si adatta alla visione del mondo del presidente. E’ bravo a turarsi il naso”.

 

[**Video_box_2**]L’obiettivo dei “talks”. A cosa puntano i colloqui tra opposizione e governo siriano, se ci saranno? Un primo punto è il riconoscimento reciproco, un secondo riguarda una via alla pace molto cara al negoziatore delle Nazioni Unite Staffan de Mistura. L’idea è raggiungere una serie di accordi di pace molto localizzati e circoscritti sui vari fornti in cui si combatte, un po’ dappertutto in Siria. Sono accordi di pace così fragili che sono definiti “freeze”, congelamenti: i due contendenti sospendono le attività e congelano le ostilità – il nome stesso chiarisce che è un processo reversibile, gli accordi si possono sgelare e squagliare in fretta e i combattimenti possono ricominciare. Questi freeze dovrebbero concorrere poi a fare massa, ad allargarsi, a includere aree sempre più vaste, fino a trasformarsi in un vero accordo di pace. La speranza è che a quel punto entrambi, regime e ribelli, punterebbero le armi contro lo Stato islamico. Ma i gruppi che fanno la guerra contro Assad includono fazioni disposte a trattare e fazioni che non accetteranno mai di trattare. Inoltre, alcune considerano la lotta contro Damasco prioritaria rispetto alla lotta contro lo Stato islamico, spesso per ragioni materiali: gli uomini di Baghdadi occupano una parte del paese al confine con l’Iraq e se avanzano lo fanno soltanto via terra, il regime invece dispone degli aerei e colpisce ovunque.

 

L’aeroporto conquistato dagli americani. Se i negoziati falliscono a questo round, o non partono, non vuol dire che la situazione sul terreno non stia cambiando, secondo una regola che s’impone su tutto il conflitto in Siria: non sono gli accordi a determinare cosa succede sul terreno, ma è quello che succede sul terreno a dettare le posizioni e gli accordi. Gli americani due giorni fa hanno preso possesso di un piccolo aeroporto militare nel nordest del paese, dove i curdi e i ribelli delle Forze democratiche siriane – un nome di facciata che descrive i miliziani filo occidentali che hanno lo Stato islamico come nemico numero uno – stanno obbligando gli uomini di Baghdadi a indietreggiare verso Raqqa. Russi e governo siriano per ora non interferiscono, perché sono impegnati sull’altro lato del paese a bloccare gli altri ribelli.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)