Così Erdogan ha sdoganato il complottismo di stato in Turchia
Roma. Immaginate il presidente di uno stato membro della Nato che, in dichiarazioni pubbliche e formali, suggerisce in modo esplicito come i problemi interni e esterni del suo paese derivino da un “burattinaio” che ordisce trame oscure. Immaginate che tale teoria del complotto venga a sua volta ripresa e allargata dai media più vicini all’establishment e al partito al potere. Immaginate che tutto questo sia parte integrante della narrativa dominante di questo paese. Bene, smettete di immaginare e fate i conti con la realtà: questo paese esiste e si chiama Turchia.
La costruzione decennale della Turchia di Erdogan è in effetti passata per l’individuazione sistematica di un nemico nell’ombra, uno “stato sommerso” la cui eliminazione, di volta in volta, ha permesso di rafforzare la presa dell’Akp sul paese. Per primi i militari, custodi della repubblica laica di Atatürk, che a colpi di presunti tentativi di golpe ciclicamente sventati hanno visto il loro potere politico quasi del tutto decimato. Poi è stato il turno della magistratura e dei giornali, epurati all’indomani della messa in stato d’accusa, nel 2013, di autorevoli membri del governo e del figlio dello stesso presidente per corruzione, venendo accusati di complicità con Fetullah Gülen, autoesiliato predicatore ed ex alleato considerato il deus ex machina di un tentativo strisciante di colpo di stato.
Ma con la progressiva implosione del contesto regionale in cui è immerso il paese e il sostanziale fallimento di ogni velleità neo-ottomana, tradottesi anzi in un crescente isolamento e in un riacuirsi della perenne questione curda, Erdogan ha perfezionato la narrativa complottista, menzionando per la prima volta nell’ottobre 2014 l’“üst akil”: una “mente superiore” che avrebbe ordito una trappola contro la Turchia attraverso lo scontro per Kobane tra il Pyd curdo-siriano e lo Stato islamico. Come ricorda Mustafa Akyol, editorialista del laico Hurriyet e strenuo sostenitore della conciliabilità tra islam e liberalismo, alla definizione dell’“üst akil” è seguita una serie di congetture da parte dei media filogovernativi sull’identità del burattinaio che, tenendo le fila dei vari attori nel conflitto siriano, stava in realtà cingendo d’assedio la “nuova Turchia” di Erdogan. In quel periodo, continua Akyol, i giornali filo-Akp identificarono nel mastermind per eccellenza gli Stati Uniti (e l’occidente in senso lato): l’attenzione su Kobane sarebbe rientrata nel piano americano di uno stato curdo laico al confine turco, volto a indebolire gli islamisti al potere ad Ankara.
Il concetto di “üst akil” trae forza nella sua vaghezza, che la rende adattabile al nemico di turno. Così l’anno scorso il concetto è stato rispolverato da A Haber – rete televisiva del Gruppo Çalik, conglomerato mediatico e industriale presieduto dal genero di Erdogan – per farne un documentario omonimo dove il ruolo del mastermind è assunto, questa volta, dagli ebrei (circa 17 mila nella sola Turchia) – in una specie di versione televisiva dei famigerati Protocolli dei Savi di Sion. Il documentario si apre con le dichiarazioni del presidente turco sulla “mente suprema” che starebbe complottando contro la Turchia: “Dietro tutto ciò, c’è un burattinaio – dice il presidente alla folla che lo ascolta – E voi sapete qual è”. Segue un concentrato dei peggiori cliché antisemiti, distillati fino ad arrivare alla tesi per cui gli ebrei non vedrebbero di buon occhio “l’indipendenza” con cui Ankara starebbe rovinando i loro schemi. La mente suprema avrebbe causato il collasso dell’Impero ottomano, così come ogni golpe o assassinio politico nella storia repubblicana. Oggi, evidenzia Akyol commentando il documentario, l’“üst akil” sarebbe preoccupato come non mai, perché la Turchia starebbe rompendo le sue catene sotto la “gloriosa leadership” di Erdogan.
E’ la nuova “sindrome di Sèvres”
Una volta definita la portata della teoria del complotto nella narrativa governativa, tocca capire quanto essa contribuisca effettivamente a formare la proiezione esterna di Ankara: che tipo di alleato può essere per l’occidente chi fonda la sua visione del mondo su complotti e trame? Daniele Santoro, analista e autore per la rivista di geopolitica Limes, pone una necessaria premessa: l’“üst akil” trova terreno fertilissimo tra i turchi, convinti da sempre di essere “assediati” dal resto del mondo e che ancora soffrirebbero della “sindrome di Sèvres”, quando le potenze vincitrici sezionarono l’Impero ottomano. Partendo da ciò, continua Santoro, si può affermare che la teoria del burattinaio non influenzi la politica estera turca, ma è il riflesso del suo fallimento: la fine del sogno di una Turchia nuovamente potenza regionale non deriverebbe quindi da errori di valutazione ed eccessiva impulsività, ma da un complotto del nemico di turno contro la rinascita del paese. E, come già evidenziato, la lista dei nemici di turno è lunga e varia a seconda dell’attualità – Israele, Stati Uniti, Unione europea, fino più recentemente a Iran e Russia. Erdogan, continua Santoro, vince quando si dipinge come vittima: prima dei militari, poi dei gulenisti, oggi di quegli attori internazionali che starebbero impedendogli di fare della Turchia il paese guida del mondo sunnita. In un paese ad alta polarizzazione interna, tale versione è accettata e sostenuta dalla metà dei cittadini che vota Akp, la Turchia “anatolica” che deve all’establishment il proprio riscatto sociale e che “vuole” credere alla narrativa offerta da Erdogan e dai suoi “ideologi”, come il fedele direttore di Yeni Safak, Ibrahim Karagül. L’altra metà del paese, semplicemente, la irride.
[**Video_box_2**]L’“üst akil” quindi come ennesimo strumento di ingegneria sociale ed elettorale a meri fini interni? Probabile, anche perché difficilmente il documentario antisemita del canale A Haber può conciliarsi, per esempio, con il disgelo in corso tra Turchia e Israele, prova del realismo tattico di Erdogan che vorrebbe sostituire il gas russo con quello scoperto a largo dello stato ebraico. Ma con un Erdogan schiacciato in Siria e pronto a tutto pur di uscire dall’angolo in cui si è chiuso, il quesito resta: quanto si può contare su una leadership che si affida esplicitamente a teorie del complotto per puntellare il proprio consenso e schiacciare forme anche blande di dissenso interno?