L'obliqua guerra fra Hillary e Bernie per l'eredità di Obama
New York. Nell’intervista rilasciata a Politico dallo studio ovale, un circospetto Barack Obama si è fermato pochi passi prima dell’endorsement a Hillary Clinton, ma l’antifona era chiara. Quella pronta, qualificata, agguerrita e che sa in che verso girano gli ingranaggi del potere è lei. Bernie Sanders è un outsider appassionato e volitivo, ma non è che un “bright, shiny object”, un luccicante specchietto per allodole elettorali che stanno passando un momento di affaticamento da eccesso di establishment: “Bernie è uno che ha la virtù di dire esattamente ciò in cui crede, con grande autenticità, grande passione, e non ha paura. Il suo atteggiamento è ‘non ho nulla da perdere’”. Che poi era anche l’atteggiamento che aveva Obama nel 2008, anche se il presidente nega ogni analogia con la sua corsa.
Al dibattito democratico in stile townhall di lunedì sera, l’ultimo prima del voto in Iowa, Hillary ha insistito in modo martellante, perfino ossessivo sull’ermeneutica della continuità. Obama le ha teso una mano, lei si è presa un braccio: sono stata “davvero commossa e gratificata” nel leggere l’intervista dell’ex rivale con cui si è consolidata “una vera amicizia”, ha detto. Tutta la trama della serata di Hillary si è sviluppata attorno all’idea di esplicitare ed esporre al pubblico tutti i ragionamenti che Obama, per ragioni appena ovvie, aveva lasciato in forma larvale e implicita, accaparrandosi così l’intera eredità obamiana. Ai giovani sostenitori di Sanders che la accusavano di essere disonesta, al pari del resto dell’establishment che rappresenta, ha risposto piccata: “Sono sul fronte del cambiamento e del progresso da quando avevo la vostra età”. Su queste note si aperta la grande faglia, il divario ideologico abissale con Sanders, il quale soltanto in tempi recenti, da quando ha intuito che la sua corsa non è poi così donchisciottesca, ha preso ad attaccare Hillary sulla sostanza.
Nel confronto-comizio di Des Moines si è vista tutta l’ampiezza della frattura fra le due visioni democratiche, e dopo le solite belle parole di circostanza il senatore del Vermont ha aggredito Hillary sulla regolamentazione di Wall Street, sull’oleodotto Keystone opposto dopo mesi di indecisone, sulla diffusione delle armi da fuoco mai realmente contrastata e sullo stato sociale: “Ho guidato la battaglia contro la deregolamentazione di Wall Street. Andate a vedere da che parte stava Hillary su questo tema”. Naturalmente il voto a favore della guerra in Iraq è stata la contraddizione più sventolata, cosa che ha costretto la frontrunner democratica ad ammettere, una volta ancora, il suo errore. Particolarmente abrasivo il modo in cui ha smontato l’argomento clintoniano della maggiore esperienza, sul quale anche Obama ha poggiato il suo quasi-endorsement: “L’esperienza è importante, ma non è l’unica cosa. Anche Dick Cheney aveva molta esperienza quando è diventato vicepresidente”. Con l’umore elettorale che circola, buttarla su continuità e affidabilità è una strategia che ha qualche controindicazione in termini di entusiasmo e capacità di sfruttare l’inerzia. Hillary è la favorita, ma il vento è tutto nelle vele di Bernie e della sua discontinuità socialisteggiante, lui che con il suo atteggiamento non-ho-niente-da-perdere sta investendo tutto sul caucus dell’Iowa della settimana prossima, mentre l’avversario prudentemente ridistribuisce le forze in vista di una battaglia più lunga del previsto. La media dei sondaggi più attendibili fatta dal sito RealClearPolitics parla di meno di un punto percentuale di vantaggio da parte di Hillary. Altri stregoni dei numeri parlano di un gap assai più pronunciato. Numeri a parte, nel giro di pochi giorni la sfida democratica si è trasformata in una disputa fra continuità e rupture con l’eredità obamiana, faccenda complicata per chi deve succedere a un presidente che si è fatto largo con il “change”. Il vero erede è colui che prosegue su quella formula di cambiamento oppure chi ne propone un’altra?
[**Video_box_2**]La tesi di Axelrod condanna la candidata
Proprio di questo ha scritto anche uno degli inventori dell’Obama politico, David Axelrod. Il suo articolo apparso sul New York Times un paio di giorni fissava la “teoria di Obama” in relazione al fenomeno Trump, ma può essere applicato anche a Sanders: “Le elezioni sono determinate dalla percezione dello stile e della personalità del presidente uscente. Gli elettori di rado cercano una replica di ciò che hanno già. Quasi sempre vogliono un rimedio, il candidato che ha le qualità personali che il pubblico pensa che manchino al leader uscente”. Se si parla di Trump e dell’impazzimento in quota repubblicana la teoria di Axelrod concede un immenso onore a Obama, magnificato a contrario dalla popolarità di un improbabile imbonitore senza credenziali, ma calata in ambito democratico non è un auspicio favorevole per Hillary. Secondo la “Obama theory”, la candidata dovrebbe lavorare almeno in parte per contrasto, non in perfetta continuità con il presidente in carica.
David Graham sull’Atlantic si domanda se, quasi per paradosso, non sia proprio Sanders il vero erede di Obama: “I sostenitori di Clinton hanno capito perché gli elettori hanno preferito Obama nel 2008, ma erano certo che nel 2016 sarebbero ritornati dalla Clinton, che avrebbe consolidato i risultati di Obama, rimediandone gli errori. Il successo di Sanders fin qui mostra i limiti di questo approccio. Sanders ha messo le mani su una parte diversa della legacy di Obama: la sua promessa idealistica di un cambiamento radicale, a prescindere da quanto l’obiettivo sia improbabile, o impossibile. Così offre un’ispirazione e un’emozione che Clinton non riesce a comunicare”. Se Sanders mette tanta enfasi e tante risorse sul voto dell’Iowa di lunedì è perché sa che è l’irripetibile occasione per mettere sul piatto e capitalizzare ciò che Hillary non può dare agli elettori, sfruttando un vantaggio strategico cha passa (anche) per il sottile malinteso circa l’eredità obamiana. In fondo era tutto già scritto nella “Obama theory”.
L'editoriale dell'elefantino