Stanze separate per la Siria
I colloqui internazionali sulla Siria inizieranno venerdì a Ginevra, ha detto l’inviato delle Nazioni Unite Staffan de Mistura, e dureranno sei mesi. Sei mesi – non tutti di fila, colloqui per lo più bi-trilaterali per due o tre settimane, pausa di riflessione, e si ricomincia, sperando di poter allargare le discussioni a quegli interlocutori che si rendono disponibili a un colloquio più ampio. Stanze separate, dunque, “proximity talks”, li chiamano gli americani, con De Mistura che fa avanti e indietro da un tavolo all’altro, cercando i punti di contatto qui e là, se mai ce ne saranno. Alla conferenza stampa di lunedì dal quartier generale di Ginevra, l’inviato dell’Onu ha fatto di tutto per abbassare le aspettative, non pensate che sia facile, non pensate che ci sarà qualche risultato in fretta, la strada è molto e sempre in salita, “quel che conta è iniziare i negoziati con un qualche tipo di comprensione minima” – si è persino premurato di dire che non è necessario che tutti gli invitati si presentino assieme venerdì. Gli invitati, appunto: ieri De Mistura ha mandato gli inviti, sulla base di una lista che è ancora piena di incognite, e a ogni punto interrogativo corrisponde una faida tra i cosiddetti “stakeholder” della crisi siriana, gli americani, i russi, i sauditi, gli iraniani, i turchi, il regime di Bashar el Assad, soprattutto. Per esempio: De Mistura ha contattato i curdi, i russi dicono che i curdi ci vogliono al tavolo, i turchi sono già fuoriosi. Come ha scritto Liz Sly sul Washington Post, “il nuovo format dei colloqui e il ritardo nella partenza (il day one era previsto per il 25 gennaio, ndr) sottolineano l’enorme problema di mettere tutti insieme i partiti della guerra civile in Siria, che in quasi cinque anni ha causato 250 mila morti, 12 milioni di siriani cacciati dalle loro case, un’ondata di rifugiati in Europa e l’espansione dello Stato islamico”.
Il ruolo degli Stati Uniti è ambiguo. Joe Biden, il vicepresidente americano, ha detto nel fine settimana che, se dovesse fallire l’iniziativa diplomatica in Siria, ci sarà un “intervento militare” – ma era una delle sue gaffe, è iniziata la girandola delle smentite, non intendevo dire questo, intendevo altro. La confusione a livello diplomatico è alta, anche il segretario di stato John Kerry è incappato in una crisi simile a quella di Biden sul ruolo che Assad deve avere nel negoziato e, soprattutto, nel futuro della Siria. “Deciderà il popolo siriano, come vuole la risoluzione dell’Onu” è il velo sotto cui si nasconde ogni tentennamento strategico. Sul campo, la confusione diventa pericolo, perché tutto quel che nelle stanze della diplomazia è un elenco di nomi o di numeri, in Siria è vita o morte, sopravvivenza o fame.
Il New York Times ha pubblicato nel settembre scorso un articolo dal titolo “Death in Syria” che aveva sullo sfondo una miriade di puntini. Migliaia e migliaia di puntini rossi. “Ognuno di questi puntini rappresenta una persona uccisa durante il conflitto siriano”. Più di 250 mila persone uccise, con qualche dettaglio (ma i numeri sono approssimati per difetto): almeno 28.277 civili morti in stragi di massa; almeno 27.006 civili uccisi in attacchi con i mortai e i missili; almeno 18.866 civili uccisi in attacchi aerei del regime di Damasco; almeno 8.871 civili uccisi dopo essere stati rapiti, detenuti e torturati; almeno 984 civili uccisi da sostanze tossiche o chimiche; almeno 565 civili uccisi dalla fame, dalla disidratazione, dalla mancanza di cure mediche. I medici siriani sono considerati gli eroi della guerra: ne sono morti almeno 654. Marc Parenteau, vignettista che vive in California, ha pubblicato sull’Atlantic una storia in cui spiega come “il medico” Assad – prima di diventare il brutale erede di Hafez Assad, Bashar ha studiato medicina in occidente – sta uccidendo i medici siriani. Parenteau ha parlato con i medici che lavorano sul confine turco, danno materiali e istruzioni ai colleghi siriani che arrivano, stanno qualche giorno e ripartono. Non sanno se torneranno: ad Aleppo, la città al nord che era famosa per le sue università e che è sotto assedio da anni, il 95 per cento dei medici è scappato, è stato messo in prigione o è stato ucciso. L’assistenza sanitaria ora è garantita da “personale di seconda linea”, i tecnici di laboratorio, le infermiere, gli studenti di medicina, che lavorano nei sottoscala, nelle cantine, perché fuori, nei palazzi, sono bersagli mobili. “La resistenza di queste persone è assolutamente incredibile”, conclude Parenteau – ed è la resistenza incredibile di un intero popolo. Che però è esausto, e teme di essersi finora fidato invano dei suoi alleati. “I siriani stanno perdendo la speranza che al mondo interessi qualcosa di loro”, ha detto Yacoub El Hillo, coordinatore degli aiuti umanitari in Siria. Bassam Barabandi e Hassan Hassan, esperti del conflitto siriano con fonti sul terreno, hanno scritto su Foreign Affairs: “L’opposizione al regime di Assad teme che gli Stati Uniti non stiano sostenendo la loro posizione contro il fronte pro regime composto da Russia e Iran. L’opposizione insiste che, come è stato deciso dalla risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Washington faccia pressione su Damasco per ottenere il rilascio dei prigionieri, la fine degli assedi, la fine dei bombardamenti su aree abitate da civili. Gli americani dicono che lo stanno facendo, ma che l’opposizione si deve dare obiettivi realistici e non rovinare lo slancio nei confronti dei colloqui diplomatici”.
“Aspettative realiste”: chissà cosa intendono davvero gli americani. Per ora molti gruppi ribelli si sono messi a fare accordi di cessate il fuoco, cittadina per cittadina, con il regime: ce ne sono stati almeno trenta. Il primo caso di negoziato con il regime a Moadamiya, vicino a Damasco, risale al 2013: la cittadina era stata colpita da un attacco chimico, poi messa sotto assedio, gli abitanti morivano di fame, così ha ceduto, ha accettato l’accordo, ha messo una bandiera del regime sul municipio come simbolo di rispetto: oggi è di nuovo sotto ai bombardamenti. Non si sa quanto e se dureranno, questi cessate-il-fuoco strada per strada – il livello di disperazione è reso chiaro da un dettaglio: i ribelli si fidano di più degli accordi in cui a mediare con il regime sono i russi e gli iraniani che in confronto ad Assad sono molto più affidabili – e spesso il patto con Damasco prevede che tutti i combattenti, uomini per lo più sunniti, lascino la città. Bombe, fame e svuotamento: è così che la Siria è diventata un paese fantasma.
[**Video_box_2**]L’obiettivo primario dei colloqui di pace a Ginevra, ha detto De Mistura, è “un cessate-il-fuoco reale, e non soltanto locale”. “La sospensione dei combattimenti dello Stato islamico e di Jabhat al Nusra (gruppi considerati ‘terroristi’ dalle Nazioni Unite, ndr) non è in discussione, ma ci sono molte sospensioni che possono invece essere siglate”. Non ha detto altro, De Mistura, ma se è questo “lo slancio” che, secondo gli americani, dovrebbe addomesticare le preoccupazioni dell’opposizione ad Assad, le aspettative non possono che sbriciolarsi. Sam Heller ha raccontato su Vice che alcuni di questi gruppi, spossati dall’indecisione americana e dagli attacchi aerei del regime e dei russi, vogliono fare appello ai musulmani di tutto il mondo per unirsi alla loro battaglia. Molti non sono d’accordo – “Certo, come se avessimo bisogno di un altro po’ di al Qaida”, ha commentato su Vice un giornalista siriano che si muove tra Aleppo e la Turchia e che ha chiesto l’anonimato – ma dopo cinque anni di guerra civile, con il presidio dello Stato islamico sempre saldo e brutale e i bombardamenti russi che consolidano il potere del regime di Damasco nell’ovest del paese, prevale la spossatezza. Il tempo non gioca a favore della resistenza. “Ogni giorno che passa ci sono sempre meno posti sicuri in Siria”, ha scritto in un paper Paulo Sérgio Pinhero, il presidente del panel dell’Onu che indaga sugli abusi di diritti umani in Siria: “Le decisioni quotidiane, se andare a far visita a un vicino, se uscire e andare a comprare il pane, sono diventate potenzialmente decisioni di vita o di morte”. E i diplomatici si danno sei mesi di tempo per provare a far parlare persone che vivono in stanze separate.
L'editoriale dell'elefantino