Così l'Europa diventa il ventre molle della sicurezza globale
Roma. “I tradizionali guardiani dell’ordine liberale internazionale sembrano credere sempre meno nella propria capacità di influenzare gli eventi”, c’è scritto nel rapporto appena pubblicato dagli organizzatori della Munich Security Conference, ribattezzata “la Davos della sicurezza internazionale”, che si aprirà fra due settimane nella capitale della Baviera. A proposito di “helpless guardians”, cioè di “guardiani impotenti”, citofonare Svezia: ieri il governo scandinavo ha reso noto che intende espellere fra le 60 mila e le 80 mila persone a cui ha negato la richiesta di asilo, e anche l’Olanda sta pensando a provvedimenti simili. Questi paesi aprirono le porte ai rifugiati africani e mediorientali ben prima che la cancelliera Angela Merkel soltanto ci pensasse su. Adesso corrono ai ripari di fronte alle difficoltà nel processo di accoglienza e integrazione, insomma “sembrano credere sempre meno nella propria capacità d’influenzare gli eventi”, e così fissano (sulla carta) un tetto massimo agli ingressi. La gestione dei flussi migratori occupa soltanto uno dei capitoli del Munich Security Report intitolato “Crisi senza confini, guastatori sprezzanti, guardiani impotenti”, dal quale emerge che l’Europa, vista perlomeno da questo pensatoio finanziato dal governo tedesco, costituisce sempre più il ventre molle della sicurezza globale. Fra una quindicina di giorni, riuniti a Monaco, ci saranno capi di governo, ministri, generali delle forze armate e colossi dell’imprenditoria privata, analisti di geopolitica ed economia internazionale. L’appuntamento nacque nel 1963, in forma riservata, con soli 60 partecipanti fra cui Helmut Schmidt e Henry Kissinger; l’anno scorso, nella versione molto più mondana, ad aprire i lavori fu il ministro della Difesa tedesco, Ursula von der Leyen, la quale annunciò che la Germania era ormai pronta a guidare l’Europa – senza aver paura di dirlo, questa l’implicita novità.
Wolfgang Münchau, editorialista del Financial Times con passaporto teutonico, euroscettico conclamato, ieri nella sua newsletter Eurointelligence ironizzava, anticipando lo studio del think tank, sui contenuti “più pessimisti dei nostri”. “Il mondo, specialmente se visto da occidente, potrebbe essere in effetti nella sua forma peggiore dalla fine della Guerra fredda”, si legge nel rapporto della Munich Security Conference, presieduta dal 2009 da Wolfgang Ischinger, già ambasciatore di Berlino negli Stati Uniti al momento degli attentati dell’11 settembre 2001, subito dopo i quali si distinse per la seguente dichiarazione sul rapporto con l’America: “Non riesco a ricordare un momento storico in cui le nostre relazioni siano state migliori”.
Oggi invece il pensatoio presieduto dall’ex ambasciatore Ischinger getta uno sguardo tutt’altro che benevolo sul tandem euroamericano. Non si tratta di bieco catastrofismo. Il 2015, per esempio, è stato l’anno in cui la popolazione mondiale che vive in povertà estrema è scesa per la prima volta sotto il 10 per cento del totale, dal 37 per cento di soli 25 anni fa. Eppure, “nonostante sia remoto il rischio di guerre significative tra stati, per la prima volta dalla fine della Guerra fredda non si può bollare come ‘incubo irrealistico’ una escalation di violenza tra le grandi potenze”. Il pensiero corre alla direttrice Washington-Mosca: la Russia di Vladimir Putin “è stata impegnata a dimostrare il suo status di player globale, anche se la sua economia racconta tutta un’altra storia”. A fronte di ciò, secondo il think tank di Monaco, “in almeno due dei conflitti decisivi dei nostri tempi, quello in Ucraina e quello in Siria, gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo meno importante rispetto a precedenti conflitti. Il format diplomatico chiave per risolvere la crisi ucraina – il cosiddetto ‘Normandy group’ – non include l’America. In qualsiasi crisi europea che si è verificata dopo la Seconda guerra mondiale, una tale assenza sarebbe stata impensabile”.
[**Video_box_2**]C’è un problema aggiuntivo, di un certo rilievo. In contemporanea infatti anche la proiezione internazionale dell’Europa – in termini di politica estera ed economia – è in flessione. Sulla guerra civile siriana le debolezze euroamericane si sono combinate, rafforzandosi a vicenda: “Gli alleati europei e americani si sono fermati sempre prima di intervenire contro il regime di Assad, anche se questo aveva oltrepassato le cosiddette ‘linee rosse’ (…). I critici di un intervento internazionale in Siria, inclusi quelli tedeschi, sostennero nel 2011 che un intervento avrebbe alimentato soltanto il conflitto e diffuso la violenza al di là dei confini siriani. Invece è accaduto esattamente l’opposto: l’approccio non interventista ha creato le condizioni per una guerra civile sanguinosa e sempre più complessa, fino alla conflagrazione regionale di queste settimane e all’intervento russo nel paese”. Pare svanito oramai anche quel sostegno che era stato “galvanizzato” dagli attentati dello Stato islamico a Parigi, lo scorso novembre: “L’occidente è rimasto a metà”. E questo è il giudizio di un think tank finanziato in larga parte da quel governo di Berlino che soltanto dopo gli attacchi di Parigi si è deciso a partecipare alla coalizione militare che opera in Siria (seppure astenendosi da attacchi militari diretti contro gli obiettivi terroristici). Nel board della Munich Security Conference siedono i vertici di colossi tedeschi come Linde, Deutsche Bank, Allianz, Munich Re, oltre che della paneuropea Airbus e della russa Sberbank, al fianco dei sauditi del King Faisal Center for Research and Islamic Studies, eppure le critiche allo status quo europeo sono più che decise. Nello studio si osserva per esempio come già nel 2003 la Strategia di sicurezza dell’Ue annunciasse: “Il nostro compito è promuovere la costituzione di un anello di paesi ben governati a est dell’Unione europea e sulla sponda meridionale del mar Mediterraneo”. A che punto siamo oggi? Bruxelles ha lasciato che si formasse piuttosto un “anello di fuoco”, per usare la definizione di Carl Bildt, ex primo ministro svedese e tra gli animatori del pensatoio. Detto in forma più piana, “l’Europa finora ha fallito nel costruire una politica estera e di sicurezza comune come previsto dal Trattato di Lisbona (…). Piuttosto Bruxelles continua a essere azzoppata da alcuni problemi generali”. Tra i quali figurano “un accordo fragile sulle sanzioni contro la Russia”, e questo suona fra l’altro come un avvertimento per Matteo Renzi che mette in discussione quel fronte comune sulle sanzioni; e poi “i punti interrogativi che rimangono attorno alla Grecia e al futuro dell’euro”; “il pericolo della Brexit” e infine quello della “resurrezione dei confini” tra stati membri dello stesso continente. Perché “mentre la cancelliera Merkel continuava a dire ‘Wir schaffen das’, ce la possiamo fare, sempre più paesi europei hanno iniziato a chiudere i propri confini, mettendo a rischio gli accordi sulla libera circolazione di Schengen”. Figurarsi ora che anche la cancelliera delle porte aperte è sotto fortissime pressioni incrociate per cambiare verso alla sua politica.
Insomma, fra due settimane a Monaco si discuterà ovviamente dell’economia cinese, del petrolio ultra conveniente e dell’onnipresente cambiamento climatico. Ma al centro delle attenzioni tedesche rimane il malato euroamericano. Il rapporto del think tank presieduto da Ischinger si apre con una parafrasi di alcuni versi di “September 1, 1939” del poeta britannico Wystan Hugh Auden: “Stiamo entrando in un vile decennio disonesto”. Il verso immediatamente prima recitava “muoiono le brillanti speranze”. Renzi e Merkel, oggi, avrebbero tanto di cui discutere.
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