“Il genio di Trump è di non essere ideologico, e quando non c’è un’ideologia condivisa ha successo chi agita la base con promesse impossibili”, dice Sam Tanenhaus

La Decomposizione del Gop

Establishment contro popolo, intellettuali contro politici, tutti contro il “terzo partito” post ideologico di Trump. Indagine sulle cause della grande guerra fra repubblicani

Il simposio che la National Review ha pubblicato contro Donald Trump, aprendo in forma ufficiale un conflitto intra-repubblicano piuttosto datato, esibisce un ampio spettro di argomentazioni conservatrici. Ogni autore critica Trump per uno specifico ordine di ragioni. Per il profeta del Tea Party, Glenn Beck, è un alleato del “big government” che ha sostenuto il salvataggio delle banche, il libertario David Boaz vede nel suo nativismo una minaccia ai “principi fondanti” dell’America, Brent Bozell, adepto di seconda generazione di Barry Goldwater e ora cruziano, lo declassa a “ciarlatano” che accuratamente evita tutti gli appuntamenti, le letture, le occasioni e i rituali che fanno di un conservatore un conservatore. Alla critica psicanalitica di Mona Charen (“emotivamente immaturo, al confine del disturbo della personalità”) si sovrappone quella politicista del “reformocon” Yuval Levin: “Pone una minaccia diretta al conservatorismo, perché incarna le vuote promesse di una leadership manageriale fuori dalla politica”. Per smontarlo Bill Kristol usa Leo Strauss, Erick Erickson tira in ballo San Paolo, Dana Loesch impiega le armi da fuoco, anche se non letteralmente. “Trump è filosoficamente inaccettabile per un conservatore responsabile!”, gridano quelli, “è solo uno scemo da reality show!”, rispondono gli altri.

 

I ragionamenti sofisticati, ispirati da letture colte e radicati nella vena intellettuale del conservatorismo, vanno a braccetto con quelli dozzinali e capziosi. Trump ha scansato questo complicato florilegio di critiche con un tweet: la National Review è una “failing publication”, un giornale che sta fallendo e cerca di farsi un po’ di pubblicità aggredendo l’asset più caldo di questa stagione elettorale. Niente di più. Come se questo rendesse meno valido il contenuto delle critiche. In un attimo la gravitas del giornale degli intellettuali conservatori è finita nel tritacarne post ideologico di Trump, il quale fondamentalmente se ne frega di conservatori e liberal, repubblicani e democratici, destra e sinistra, se ne frega dei fatti che inchiodano le sue boutade, se ne frega di Fox News e dei certificati di nascita, se ne frega di tutto sì. Anche per questo un opinionista conservatore idealmente in sintonia con le critiche della rivista, Ross Douthat, ha scritto che questo tipo di attacchi serve a poco: dare dell’incoerente a chi giudica la coerenza un disvalore è un esercizio controproducente, specialmente se una fetta consistente dell’opinione pubblica è d’accordo con lui. Più efficace – ha scritto – sarebbe aggredire il brand di Trump, mostrando i suoi fallimenti nel business di cui tanto è orgoglioso, facendo vedere che il suo costante reality show è noioso, inviando cronisti ad Atlantic City per documentare che non ha contribuito poi tanto a “make America great again”.

 

Questa critica conservatrice alle critiche di alcuni conservatori ha subito a sua volta altre critiche conservatrici. E i critici dei critici, criticati, hanno risposto con altre critiche. Se Trump si è vagamente accorto di tutto questo bailamme, i suoi sondaggi non hanno fatto una piega. Così, l’esplosione di questa grande rissa fratricida fra conservatori, il “conservative crack up” annunciato venticinque anni fa da R. Emmett Tyrrell, racconta una storia che è assai più vasta del ciuffo paglierino del frontrunner, ché pure i fenomeni di delirio narcisistico hanno bisogno di un contesto in cui proliferare, di un organismo da aggredire.

 

Il simposio mostra innanzitutto che non è una guerra fra due eserciti soltanto. “Non è l’establishment contro la base, professionisti contro populisti”, dice al Foglio Sam Tanenhaus, intellettuale che a lungo ha diretto la Book Review del New York Times e da molto più a lungo sta lavorando a una biografia di William Buckley, eroe intellettuale della destra. “Gli intellettuali sono contro i politici, gli opinionisti attaccano la macchina del partito, e il popolo che risponde ai richiami di Trump è indifferente ai primi e disprezza i secondi. Non è un caso che la cerchia della National Review attacchi Trump mentre i personaggi che sono l’espressione del partito, tipo Bob Dole, siano innanzitutto contro Ted Cruz: ogni corrente ha un nemico che giudica più pericoloso, a seconda dei suoi scopi, e a differenza del passato il partito non è nemmeno più disciplinato, ognuno fa come gli pare”, spiega Tanenhaus, che ride – ma non scherza – quando racconta che molti amici, di questi tempi, gli suggeriscono di ripubblicare un suo presciente saggio intitolato “The Death of Conservatism”. “Poi guardo la campagna elettorale e penso che siamo oltre la morte, siamo alla decomposizione”, dice.

 

Per mettere nel contesto la presente guerra, Tanenhaus suggerisce due spunti. Primo: il tema del “terzo partito non ufficiale”, l’intuizione sviluppata da Theodore White secondo cui esiste, nel bipolarismo apparentemente perfetto, una terza forza ufficiosa che muove l’asse della politica: “C’è sempre un gruppo influente nella destra che non riconosce la legittimità del partito”, dice Tenenhaus, e giusto ieri il gran maestro dei numeri, Nate Silver, spiegava che Trump è, da un punto di vista del comportamento dell’elettorato, un “third party candidate”. Secondo: “Il partito repubblicano non è stato costruito da gente ideologica”, scovare il nucleo di un’ortodossia repubblicana non è semplice. Alcuni conservatori giudicano Eisenhower il modello supremo del leader, per altri è il modello del tradimento degli ideali conservatori. Chi ritiene Goldwater il faro filosofico del partito è giudicato da altri un pericoloso populista urlante, e gli viene spesso ricordato che Ronald Reagan, il grande federatore carismatico di tutte le repubbliche ideologiche della destra, governava con i “Reagan democrat” e beveva molti drink con Tip O’Neill.

 

Kevin Phillips, il consigliere di Nixon che ha conquistato l’elettorato del sud storicamente democratico, spiegava questa fluidità con un motto cinicamente efficace: “Tutta la politica può essere ridotta a ‘chi odia chi’”, questione di interessi e personalità che convergono e divergono. “Il genio di Trump è quello di non avere nessuna ideologia”, dice Tanenhaus, “ma questo mette in luce una debolezza strutturale del conservatorismo degli ultimi decenni: quando non c’è un’ortodossia condivisa le personalità di successo sono quelle che agitano la base promettendo cose impossibili e intensamente populiste. Ma ce lo vedi un presidente repubblicano che va dagli americani e dice ‘adesso vi tolgo l’assicurazione sanitaria a basso costo che avete appena ottenuto’? Ovviamente no!”. Il gioco di Trump, insomma, è già stato visto. E, per inciso, è un gioco bipartisan, dato che la sorpresa nel campo democratico è un socialista che vuole fare uno spezzatino delle grandi banche di Wall Street e introdurre il sistema sanitario single-payer, progetti realizzabili quanto la chiusura delle frontiere per i musulmani.

 

E.J. Dionne, commentatore liberal, ha appena scritto un tomo di cinquecento e rotte pagine – titolo: “Why the Right Went Wrong” – sul partito repubblicano che si è ritrovato ostaggio, decennio dopo decennio, di correnti estreme. Una peculiarità trumpiana però c’è: “Dicono che se otterrà la nomination cambierà il codice genetico del movimento, ma qual è il segreto timore dell’establishment? Che venga eletto e governi alleandosi con i democratici, pragmatico come negli affari. Quando dice che lui è il vero erede di Reagan, che governava al centro, fa un’affermazione sproporzionata ma non del tutto assurda, e per questo lo temono”, dice Tanenhaus.

 

Se si accettano i paletti di questo schema interpretativo, occorre considerare la tesi di Geoffrey Kabaservice, storico di Yale che qualche anno fa ha scritto un importante saggio intitolato “Rule and Ruin: The Downfall of Moderation and the Destruction of the Republican Party, From Eisenhower to the Tea Party”, la storia della corrente moderata del partito repubblicano e della sua emarginazione. La tesi è chiara: Reagan è stato un’eccezione. Detto altrimenti: la coesione politica e ideale che si è generata nel partito in quella stagione è il frutto di un allineamento astrale irripetibile, unito a scelte controintuitive: “Reagan non era riducibile all’ideologia del partito”, dice Kabaservice al Foglio. “A parte il carisma fenomenale, per storia e formazione era capace di tenere insieme tutte le anime, dai ‘country club republican’ ai libertari che odiavano l’élite fino ai democratici disaffezionati, ma era l’unico in grado di farlo, e ci ha messo quindici anni di lavoro. Il panorama conservatore di ora ci appare folle, dominato da idee strampalate e soprattutto da una profonda sfiducia verso le istituzioni e verso il processo politico, ma non è poi così dissimile dallo scenario che il partito ha affrontato nella ‘normalità’, cioè nelle fasi di passaggio fra un’eccezione e un’altra”, spiega lo storico.

 

Lo sforzo “voluto ed esercitato con costanza” di sabotare la corrente moderata del partito dagli anni Cinquanta in poi è per Kabaservice la chiave storica che spiega l’emergere di un Trump: “La parte più centrista del partito è stata soppressa suscitando il miraggio, anzi i miraggi successivi, di un’utopia conservatrice: spesso ha dominato la scena chi ha fatto campagne su programmi che non erano realistici e policy improponibili, accompagnato da un atteggiamento anti intellettualista: la competenza è guardata con sospetto, la conoscenza è uno strumento in mano alle élite che vogliono depredare l’America della sua identità. Questo ha prodotto una base di elettori frustrati che sognano un cambio di passo, una rovesciamento rivoluzionario, non un miglioramento graduale”, dice Kabaservice.

 

L’ultimo sondaggio Allstate/National Journal Heartland Monitor sulla percezione della situazione economica degli americani dice che nonostante i dati incoraggianti sulla ripresa, una nube bigia grava sulla mentalità del paese. In questo grigiore può apparire particolarmente vitale il candidato che promette di sbattere fuori i clandestini, di spezzare le reni alla Cina, di abbassare le tasse per le famiglie della middle class, che riceveranno dall’Irs un modulo speciale con la scritta “I win”, insomma l’uomo che vuole fare l’America di nuovo grande. Del resto, la Grande depressione e il New Deal hanno completamente rimodellato lo schema politico americano, creando il fronte liberal e quello conservatore, non è certo impossibile che anche la più grande crisi dopo il 1929 lasci un segno sull’assetto politico. La fortuna del binomio Trump-Sanders è in questo senso una testimonianza vivace, anche a prescindere dall’esito finale della corsa per la Casa Bianca. Obiezione classica: l’America non è il paese che non ha mai eletto un populista da quando esiste il sistema bipolarista? “E’ vero, storicamente gli elettori tendono ad allinearsi alle correnti più mainstream, ma finora molto di quello che pensavano fosse vero sulla base della storia si è dimostrato falso o inadeguato”, dice Kebaservice.

 

Avik Roy, intellettuale conservatore della giovane generazione e senior fellow al Manhattan Institute, spiega che è sulla base di questo pregiudizio storico che il partito “ha passato molti mesi nella convinzione di potere ignorare Trump senza criticarlo”. Certo, “non puoi prendere sul serio un populista finché non è popolare”, dice Roy al Foglio, ma c’è stata una sottovalutazione del fenomeno: “Trump non è un prodotto del conservatorismo, non c’entra nulla con quella tradizione, e credo che sia stata giusta la scelta di arrivare a criticarlo da un punto di vista delle idee. E’ molto significativo che ci siano così tanti argomenti diversi, e tutti validi, contro di lui. Credo però che noi conservatori abbiamo qualche responsabilità nella creazione di un mercato per le sue idee. Le prospettive economiche per gli operai bianchi sono pessime, il settore manifatturiero delocalizza, la information economy ha eroso la forza lavoro, il modello sociale si sta deteriorando, le politiche d’immigrazione sono irrazionali, e di fronte a queste cose non è facile offrire alternative che siano persuasive e realistiche. Per troppo tempo il partito repubblicano ha creduto di poter essere convincente anche in un contesto in cui tutti i trend demografici ed economici ci sfavorivano”.

 

[**Video_box_2**]Con il suo “terzo partito” ufficioso, Trump si è infilato negli interstizi, è cresciuto negli spazi sguarniti di un conservatorismo ricattato dalla logica delle frange estreme che continuamente erodono e dividono le forze moderate, seminando panico e zizzania. L’establishment contro la base, gli intellettuali contro i politici, i visionari contro i pragmatici, gli imbonitori contro i secchioni, tutto si risolve nel “chi odia chi”.

 

E se un senso di sfiducia globale impone un populista più populista del popolo, ecco che si materializza un troll miliardario di estrazione liberal che disprezza tutto ciò che sa di mainstream, dai dibattiti di Fox News al principio di non contraddizione. Non sono pulsioni del tutto inedite. Il settimanale The Week ha tirato fuori di recente una frase scritta nel 1996 da Samuel Francis, commentatore di stile paleocon che dava consigli a Pat Buchanan, allora in lotta per la nomination repubblicana: “Prima o poi, mentre le élite globali tentano di trascinare il paese nei conflitti e negli impegni globali, guidano la pastorale economica degli Stati Uniti, lavorano alla delegittimazione della nostra stessa cultura e all’esproprio dei beni della nostra gente, disprezzano i nostri interessi nazionali e la nostra sovranità, una reazione nazionalista è quasi inevitabile, e assumerà probabilmente una forma populista quando arriverà. E prima arriva, meglio è”.