Perché l'America traballa di fronte ai cowboy con gli Stetson in testa uccisi dall'Fbi in Oregon
Adesso i cowboy diventano importanti. L’America è chiamata a schierarsi, con loro o contro. E, diamine, sono pur sempre dei cowboy e il capo riconosciuto, Ammon Bundy, sembra il Marlboro Man. Cose che contano e sulle quali, per dirne una, i candidati alle primarie non potranno glissare. Il governatore dell’Oregon qualche settimana fa aveva deciso che non gli conveniva giocarsi la reputazione su questa vicenda: quella gente si batte contro lo stato centrale e le sue regole, sganciate su un’America lontana da Washington, non solo per chilometraggio. Con Bundy e i suoi, se la vedessero i federali. Sono tipi che non recedono: pagare per i pascoli? Riconoscere la proprietà statale dei campi che da secoli nutrono il bestiame? Il contenzioso aveva superato i limiti di guardia. Per loro era ora di dare un segnale a chi da lontano pensa di comandare sulle loro vite. Così tutto è cominciato, anzi è ricominciato.
Antefatto, sempre con la famiglia Bundy a fare da capopopolo: Nevada, che è da dove provengono, 2014. Un milione di dollari da pagare per lo sfruttamento di pascoli federali. Non se ne parla: secondo loro quella terra o ha un proprietario, o è di tutti. La vedono così, sono mormoni dei primi insediamenti, invocano a garanzia Dio e le Scritture. Così gli agenti dell’ufficio territoriale gli sequestrarono il bestiame, poi, a un passo dallo scontro, glielo restituirono. Ma i Bundy non si quietano: si sentono in missione per conto degli antenati e nel nome del Signore. Hanno atteso l’occasione per ricominciare la crociata: Oregon, due contadini incarcerati per aver provocato un incendio in una riserva naturale, bruciando incautamente delle sterpaglie. I Bundy guidano fin lassù e occupano il Malheur National Wildlife Refuge, un remoto rifugio da bird watching, chiamando a raccolta gli adepti e presentandosi come i Citizens for Constitutional Freedom. Difficile dire se agiscano in proprio: i media americani invano cercano d’individuare coperture che vadano oltre le simpatie, più o meno scoperte, che Bundy e soci hanno cominciato a raccogliere dal 2 gennaio, giorno dell’operazione. Di sicuro stampa e tv annusano la storia forte, tanto più se dovesse sfociare in tragedia. Invece la questione si prolunga: opinione pubblica divisa, media locali piuttosto conniventi, ambiguità, atteggiamento salomonico del governatore, l’arrivo dei federali, l’inizio delle trattative. Dovete liberare il rifugio, perché coi simboli in America non si gioca. I Bundy lanciano messaggi distensivi, ma promettono di non arretrare. Ieri lo scarto: la tragedia.
In viaggio dal rifugio verso un meeting in un paese vicino, due macchine coi fratelli Bundy e altri membri di quella che viene ormai definita una “milizia”, vengono fermati. Le armi ci sono, si sa. E non si riesce a tenerle in tasca. Nella sparatoria muore LaVoy Finicum, portavoce del gruppo, un duro. Ferito Ryan, il fratello di Ammon Bundy. Gli altri tutti arrestati. Un altro gruppo di occupanti è ancora nel rifugio, ma a questo punto è difficile che, per scelta o per forza, l’occupazione continui. Con un cowboy ammazzato, la questione si tinge di rosso e compie un salto di qualità. La valenza emotiva aumenta. Per non parlare del potenziale politico, ovvero elettorale, dato il momento. Strana coincidenza, no? Facile immaginare gli spin doctor alle prese col potenziale quasi metafisico di un martire chiamato Finicum. Del resto era nell’aria che la prossima fosse un’elezione destinata a ragionare su alcune fondanti essenzialità del progetto americano.
Appena sotto la superficie della cronaca, c’è poi un’altra narrazione che rende l’episodio un oggetto del contendere per l’America divisa del 2016: la dimensione razziale. Elettrizzato dall’attenzione mediatica, Cliven Bundy, il padre di Ammon, di recente non s’è trattenuto dal dire in tv che la fine della schiavitù per gli afroamericani è stato un pessimo affare e che vivevano meglio raccogliendo il cotone. Affermazione indifendibile, che ha tolto dalle ambasce un pezzo di Washington: se Bundy parla così, è un irrecuperabile estremista e va isolato (per quanto, intimamente, più d’un americano avrà sospirato ascoltando quelle parole). La questione si è complicata in coincidenza con l’azione d’inizio gennaio: tutto ciò che Bundy e compagni hanno commesso in Oregon, nei 26 giorni di occupazione dell’edificio, è in flagrante violazione delle leggi. Eppure a lungo Ammon e compagni sono stati circondati più da perplessità che da decisa condanna. Ammon ha giocato bene con la comunicazione ostentando l’onnipresente riferimento al dettato costituzionale, l’insistenza – pronunciata coi modi affettati e scontrosi dell’antico countryman – sulla valenza idealistica del gesto, i riferimenti ai valori originali che l’America sta perdendo, una sarcastica affermazione di non-violenza, i “siamo certi che si troverà un accordo”, e “non saremo noi a mettere mano alle armi”, che sottintendono il “se sarà necessario, siamo pronti”. Messaggio: siamo i veri americani, figli legittimi della nazione per come dovrebbe essere ancora concepita e tradita dalla Washington assetata di potere e dalle violazioni dei princìpi di libertà. Tratteremo senza arretrare, perché i princìpi per noi sono sacri. “Mi faccio ammazzare, piuttosto che finire in una gabbia federale”, diceva Finicum. Siamo l’America e diciamo cose americane: volete distruggerci? Fatelo, ma sarà come sparare su vostro padre.
[**Video_box_2**]L’America ufficiale ha traballato, mentre i radicali gridavano allo scandalo: fossero stati neri, sarebbero stati massacrati già la prima sera e senza trattativa. Ma quegli uomini di mezza età, con gli Stetson sulla testa, i giacconi da caccia, i silenzi, le risposte a monosillabi, gli sguardi che in tv fanno un effettone, è difficile liquidarli come “terroristi domestici”. Somigliano troppo a ciò che si vede sulla Main Street di tutta l’America rurale. Che non smette di esistere. E che, ogni quattro anni, torna maledettamente a contare, per decidere a chi tocchi comandare la prossima volta.