America, si parte dall'Iowa
I numeri di Trump nel fortino evangelico smontano tutte le teorie sull’elettorato di destra. Ideologia e religione non spiegano più il comportamento di chi vota nello stato che apre le primarie – di Mattia Ferraresi
La storia recente dei caucus repubblicani in Iowa ha fatto credere di poter estrarre se non una legge almeno un pattern nella sfida che apre la corsa delle primarie: nello stato insulare, ad alta densità evangelica e con più maiali che abitanti vincono i conservatori ideologicamente puri e religiosamente orientati, a prescindere dalle loro effettive possibilità di ottenere la nomination. Ideologia e religione sono i vettori del consenso, le linee attorno a cui lo stratificato partito repubblicano si organizza. I risultati di Mike Huckabee e Rick Santorum, che a Des Moines nelle ultime tornate hanno trionfato ma alla candidatura hanno creduto forse per qualche minuto e alla presidenza mai, dovevano essere le prove definitive dell’assunto, tanto che l’intransigente Ted Cruz ha seguito le loro orme. La strategia di conquistare il sostegno di 99 pastori, uno per ogni contea dello stato corrisponde all’idea che nella sensibilità della destra religiosa si trova la chiave per vincere il primo stato e sperare nel “momentum”, il vento favorevole.
“Se risvegliamo e diamo energia al corpo di Cristo vinceremo e rovesceremo questo paese”, ha detto Cruz nel suo appello finale prima del voto. Anche Marco Rubio negli ultimi giorni non ha fatto che parlare della sua fede, e financo Hillary Clinton s’è avventurata in un commento al sermone della montagna. Il fatto è che Donald Trump ha sbaragliato questo presunto paradigma elettorale. Nel momento in cui questo giornale va in stampa le assemblee popolari che decreteranno il vincitore sono ancora aperte, ma nelle ultime settimane Trump è stato sempre davanti nei sondaggi più affidabili. I numeri finali del Des Moines Register lo danno con cinque punti di vantaggio su Cruz, il sito FiveThirtyEight di Nate Silver parla di un divario di otto punti. L’affluenza e il comportamento degli elettori che normalmente non votano sono variabili importanti (il capo del partito repubblicano nello stato, Jeff Kauffmann, ha detto che potrebbe essere l’affluenza più alta di sempre) ma anche se Cruz dovesse vincere ai punti, la straordinaria performance di Trump in Iowa sarebbe rilevante, perché è difficile immaginare un candidato più irreligioso ed eterodosso di lui. Significa che la regola elettorale dell’Iowa non è affatto una regola, l’ipotesi interpretativa comunemente accettata non calza più, e così la domanda ricorrente fra gli analisti politici è passata da “è davvero importante l’Iowa?” a “per quale motivo, esattamente, l’Iowa è importante?”.
[**Video_box_2**]Come ha scritto Ronald Brownstein, Trump “può distruggere gli allineamenti demografici che hanno definito le precedenti sfide per la nomination del Gop, e sgretolare le idee dei suoi rivali riguardo alle coalizioni che credevano fossero determinanti per ottenere la vittoria”. Più in generale, la capacità di penetrazione di uno come Trump in uno stato come l’Iowa – meglio: della caricatura ideologico-religiosa che ne è stata fatta – segnala che la costante nel comportamento dell’elettorato americano è la strutturale assenza di costanti. La costruzione dell’elettorato non procede per progressione e consolidamento, in modo lineare, ma per salti e balze, con improvvisi capovolgimenti e ritorni, quelli che gli storici elettorali chiamano “riallineamenti”. Il sud è stato una roccaforte democratica prima di diventare totalmente repubblicano, le varie confessioni cristiane hanno cambiato sponda politica innumerevoli volte, fra i repubblicani ci sono internazionalisti e isolazionisti, conservatori sociali e libertari, ognuno è certo di esprimere l’ortodossia del partito. La composizione ideologico-religiosa dell’elettorato è una questione fluida, il più formidabile conservatore dell’epoca recente, Ronald Reagan, era l’incarnazione della scuola “fusionista”, altro che purezza ideologia, e l’Iowa non l’ha mai vinto. Otto anni fa un gruppo di ricercatori di politica ha pubblicato un libro fortunatissimo intitolato “The Party Decides”. La tesi era che le posizioni dei candidati contano poco nella selezione dei candidati alla CasaBianca, quello che conta è la struttura del partito, la logica dell’establishment. Trump ha già dimostrato che anche quello schema interpretativo non s’applica.