Trasformare drammi alla Giulio Regeni in martirii della nostra cattiva coscienza di occidentali
Non esiste un buon uso della crudeltà, della violenza e della morte. Ma dal modo in cui le racconti ti dirò che cosa vale la tua pietà. Quando tornano a casa lasciandosi indietro riscatti o vittime, come a Falluja o a Baghdad con Giuliana Sgrena e le due Simone (Torretta e Pari), o quando non tornano e scompaiono o vengono ritrovati martoriati, come è successo a Enzo Baldoni, a Vittorio Arrigoni, a Giulio Regeni, subito scatta il riflesso dell’icona prestampata. L’immagine è quella vera ed è a suo modo immagine sacra, perché spesso quando parliamo di questi ragazzi e ragazze si tratta della professione di capire e informare addentrandosi nei territori del male o di arginare il disastro di civiltà con interventi umanitari, ed è vero che c’è uno speciale eroismo della curiosità antropologica, dell’avventura orientalista, perfino un eroismo dell’ideologia della pace, perché no? Ma il santino no, lì si sente irrimediabilmente un che di pregiudiziale se non di falso.
Non mi sembra pietoso nel discorso intorno a questi ragazzi il minimalismo del buon cuore, l’idea che in quanto vittime sono vittime non dell’Esercito dell’islam (al Qaida, Baldoni), non delle spie di Falluja, non dei ricattatori che ci costringono a trattare con loro indecenti riscatti (caso Sgrena e Calipari), non dei mozzorecchi di Gaza (Vittorio Arrigoni), non degli squadroni della morte (Regeni, il Cairo), ma sempre e sistematicamente martiri della nostra cattiva coscienza di occidentali, alleati di tiranni, cercatori di rogna e di petrolio post coloniale. D’altra parte scrivono sul manifesto, collaborano al Diario di Deaglio, sono a posto con la linea e parlano del “valoroso popolo iracheno”, e per tutti è pronto uno storytelling, così lo chiamano, pieno di gatti, di dolcezze, di amicizie, di privatezze disperse nei fumi spietati della guerra, e il lavoro al Cairo è così lontano dalle ricerche a Oxford. Viene da piangere al solo pensare al prelevamento, alla tortura, all’insieme di ottuse e troppo umane ferinità che portano gli artigli dello stato di polizia o dei suoi corpi paralleli a lacerare il corpo di un giovane italiano che al massimo aveva preso dei contatti compromettenti anni dopo la primavera di piazza Tahrir e ne riferiva con linguaggio dignitoso e serio, sotto pseudonimo, sul giornale della sinistra antimperialista. Viene da piangere, ma non è la pietà lo stampo di cui è fatta la notizia. Non c’è titolo di giornale e comparsata tv che non alludano eccitati a responsabilità politiche presunte, a trivellazioni dell’Eni, ad alleanze indicibili con tiranni ineffabili, e dunque a quanto debba pesare la morte dei giovani idealisti, degli esploratori del bene in terra straniera, nell’idea di sé di chi è restato a casa o si è tenuto con prudenza professionale al di qua della zona di rischio e di condivisione della miseria brutale che dilaga in quei paesi.
[**Video_box_2**]Troppo facile e troppo complicato. La pietà è per sua natura una virtù semplice. Una militante egiziana ha postato dal Cairo la sua opinione con senso del vero dramma e con molta umanità: state lontani, amici stranieri, ragazzi che ci credete, da un paese che è ormai una gabbia di fantasmi, dove la sola esistenza individuale è sottoposta all’arbitrio e alla più inumana delle crudeltà, quella di uno stato tirannico. Non è seppellendo con rito inter-religioso la ragazza falcidiata al Bataclan, né aggrovigliando il mito di un occidente buono che si inoltra di là dai confini di incerte primavere, che non esistono e non sono mai esistite, non è multiculturalizzando come fosse in gioco il martirologio di una generazione Erasmus di amici dei dannati della terra, non è così che si denuncia lo scandalo della tortura. E nemmeno confondendo le acque e costruendo nuovi capri espiatori o rovistando introno alla discarica della ragion di stato. “State lontani da questa peste”, il messaggio della militante egiziana, per quanto disperato, ha un accento più vero della nostra fumettistica liturgia delle vittime.
Cosa c'è in gioco